Met a möi, sbatunà, resentà...

Dopo una puntata “in mes al rüd” di città e campagna è il momento di “fare pulizia” con le parole del nostro dialetto. Sorvoliamo sul verbo lavà, comprensibile a tutti, igienisti e vuncion, lodigiani e furesti. Accenniamo appena a smagià, facilmente riconoscibile sotto le evidenti “macchie” (lod. smagie). Non ci soffermiamo su fregà, verbo multiuso (es.: i m’an fregad la bicicleta, ma mi me na freghi e vo a pe), nel nostro caso inteso però come ‘sfregare’, ‘strofinare’ allo scopo di pulire. Merita invece qualche riga di commento il verbo netà, in italiano ‘nettare’, dall’aggettivo netto (pulito), considerato termine prevalentemente popolare e regionale. Troviamo infatti net dal Piemonte alla Lombardia al Friuli, nella forma neto a Venezia e dintorni, nettu dell’Italia insulare, e così via lungo la penisola. Scavalcate le Alpi, il nostro net spazia da Parigi (net) a Londra (neat) a Madrid (neto). Nessuna meraviglia, visto che nasce dal latino nitidus, una parola che, trascinata dalle armate di Cesare, ha fatto pulizia in tutta Europa.Vogliamo invece dilungarci su termini un po’ più ostici per chi non ha dimestichezza con il “rito” della bügada lodigiana. Partiamo da möi, l’ammollo (dal tardo latino mollus, bagnato). Met a möi o fa muià equivale quindi a ‘mettere a mollo’, in lavanderia come in cucina o in bagno (“ò mis a bagn i ninsöi”, “...i ciuchin”, “...i pe”).Fra gli strumenti da bucato un ruolo primario lo giocano (o meglio giocavano, prima del Carosello di “Grazie, Candy”) el sigion (il mastello) e la sedela (il secchio). La sedela (o sedel) ci arriva dal latino classico sitella, diminutivo di situla, mentre il sigion dal latino tardo sicla, che ci ha regalato anche l’italiano secchio.Per fare la bügada non basta però l’ammollo: si deve anche sbatunà, resentà, storge. “Sbatunà i pagni” è l’azione di battitura, sulla pietra del lavatoio o sull’asse apposito (as da lavà) per staccare lo sporco. Resentà (dal tardo latino recentare, ‘rinfrescare’, ‘rinnovare’) è la risciaquatura. Storge, da ‘torcere’, è la ‘strizzatura’, prima di stendere la biancheria a sügà (asciugare), possibilmente all’aria e al sole per evitare che prenda udur de masarot, quell’odore sgradevole di panni asciugati troppo lentamente (“chi pagni chi i san de masarot”). In italiano si direbbe ‘odore di fradicio’, nel senso originario di ‘marcio’, ma fradicio significa anche ‘inzuppato’, ‘grondante’ (di acqua, di sudore...): in questo caso il lodigiano accorto ricorre ad una parola lievemente diversa, masarad, dal verbo macerare (“i m’àn fregad l’umbrela, son rivad a ca bagnad masarad”). Nell’attesa che i panni si asciughino, vediamo da dove è entrata la parola bügada nel nostro dialetto (e bucato nell’italiano). Non dai “buchi” di un vecchio sigion come suggerirebbe un’etimologia fantasiosa, ma dal latino medievale bucata, e ancor prima dal germanico bukon, che era l’occupazione quotidiana delle lavandaie tedesche del primo millennio.

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