Marchionne deve trovare il tavolo giusto

Una partita infinita, o una commedia all’italiana? Ormai da mesi il tavolo del confronto tra la Fiat e i suoi vari interlocutori nazionali potrebbe essere raccontato come una partita di ping-pong: a ogni mossa corrisponde, rapidissima, una risposta - e i termini del problema non sembrano trovare mai soluzioni né orientamenti definitivi. Il più recente, ma non ultimo, capitolo della vicenda riguarda il pronunciamento della Corte Costituzionale circa la rappresentanza dei lavoratori in fabbrica: una sentenza che ribadisce il diritto di “esserci” anche per chi non ha sottoscritto accordi aziendali specifici. La risposta di Marchionne non si è fatta attendere: “Potremo produrre le Alfa Romeo ovunque nel mondo...”, invece che in Italia. Ma intanto i vertici Fiat hanno fatto sapere che incontreranno già oggi, venerdì, la Fiom, il “grande escluso” dagli accordi di Pomigliano e Mirafiori. Dunque, la cronaca continuerà ad avere materiale di macinare, anche nel periodo della pausa di agosto. Il tema della rappresentanza in fabbrica coinvolge anche la politica, naturalmente: perché una nuova legge in merito potrebbe stabilire criteri più chiari e condivisi. Ma anche su questo fronte i tempi sono lunghi e il cammino costellato d’incertezze. Forse la prospettiva in cui guardare al confronto Fiat-Italia va cercata considerando almeno tre elementi diversi che, però, s’incrociano continuamente: la globalizzazione, i nuovi modi di lavorare, la competitività internazionale. Sergio Marchionne, giunto in Fiat alla morte di Umberto Agnelli (2004), trovò un’azienda sull’orlo del fallimento e avviò la prima fase di risanamento partendo dalla finanza - il suo mestiere originario (e furono le banche italiane, prima di tutti gli altri, a garantire il famoso “prestito convertendo”). Fin dall’inizio il manager italo-canadese annunciò la sua strategia “globale”, cioè l’obiettivo di portare Fiat nel gruppo dei 5-6 produttori capaci di vendere nell’intero pianeta; di conseguenza, venne l’alleanza americana con Chrysler, massicciamente sponsorizzata dall’amministrazione Obama. Per rimanere attore globale e continuare ad avere credito sui mercati finanziari internazionali Marchionne ha denunciato la precisa esigenza di adeguare le modalità di produzione italiane a quelle praticate in America, nei Paesi in via di sviluppo, nell’Europa dell’Est. Ecco, allora, il confronto e gli accordi aziendali di Pomigliano e Mirafiori, che hanno spaccato il sindacato: un sindacato italiano che per molti versi era rimasto fermo a prima della globalizzazione, all’epoca delle frontiere chiuse, degli aiuti di Stato e dei prezzi fatti da chi controllava il mercato non tanto e non solo per il valore dei prodotti ma per quello del contesto. E, però, rimane vero che l’Italia (e l’Europa dell’Unione) non sono l’America e tanto meno il Far West... In questi anni lo “stile Marchionne” ha prodotto gesti e risultati clamorosi, ma tutti leggibili secondo una linea di coerenza, con questa logica: dall’uscita da Confindustria all’uso anche spregiudicato della potenzialità mediatica sua e di Fiat per far rimbalzare il punto di vista della “lobby del Lingotto” nella politica italiana o sulla scena internazionale. A riprova di quanto l’Italia rimanga, anche per la Fiat del dopo-Agnelli, strategica, c’è l’impegno accanito per il controllo del “Corriere della Sera”... Fuori dall’“equazione” di Marchione, tuttavia, rimangono molte incognite. La prima riguarda proprio i nuovi prodotti e modelli. Fiat ha avviato il risanamento finanziario, ha posto le condizioni per essere globale: ma ha rinviato sempre più in là nel tempo il discorso sui nuovi modelli - ora si parla del 2015... Nel frattempo proprio gli altri competitori globali non sono certo stati a guardare. Ma l’incognita principale si chiama Torino: qui il problema non è solo se e quando “chiudere” Mirafiori, ma come rapportarsi con una città e un territorio che, per oltre un secolo, sono stati tutt’uno con la fabbrica, modellandosi a vicenda. Fiat sa bene che nessuno strappo brutale sarebbe possibile; ma, a quanto è dato di capire, anche su questo tema la strategia è quella del ping-pong: si lascia circolare l’idea del trasferimento del “cervello” dal Lingotto, e di chiudere Mirafiori. Poi ci si premura di rassicurare che non c’è niente di vero, o almeno niente di deciso; si apre a Grugliasco lo stabilimento di eccellenza per produrre le Maserati; ma si annuncia altra cassa integrazione per Mirafiori. Le istituzioni della città e del Piemonte sono pronte a qualunque confronto: ma il problema - ben al di là delle astuzie mediatiche di Marchionne - è di trovare il tavolo giusto, poiché si tratta d’impostare soluzioni che riguardano non solo Torino, o eventuali pacchetti di misure straordinarie per affrontare una crisi che qui è davvero eccezionale. È un tema che riguarda l’Italia e, forse ancor più, l’Europa. Non a caso Marchionne è sempre così negativo quando parla della Germania.

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