L’invasione dell’inglese o dell’americano

L’apertura delle frontiere linguistiche, gli scambi internazionali sempre più frequenti e veloci e le conquiste della scienza e della tecnica, il dominio dei mercati mondiali da parte di alcune potenze hanno sconvolto il vocabolario. Dal 2000 al 2012, il ricorso a termini inglesi nella lingua italiana scritta era aumentato del 773%. Questo è quanto dice una ricerca (su un campione di 58 milioni di parole prodotte da aziende italiane) condotta da AgostiniAssociati. La stessa indagine, condotta su una base di documenti tradotti dall’italiano verso altre lingue nell’anno 2013, versus una base equivalente del 2012, evidenzia una nuova crescita del 440% degli anglicismi. A dispetto delle statistiche s’incontrano “puristi” che suggeriscono di moderare il ricorso a parole inglesi. Non hanno tutti i torti. Se leggete Repubblica o Style del Corriere è una macedonia. Ma neppure i puristi scherzano. Un sottoinsieme dell’insieme manda i figli preppy (paninari di età matura) a Londra a imparare l’English. Arricchire gli scritti con termini inglesi può essere un “vezzo” giornalistico, a patto di non dimenticare che l’idea di una lingua europea, auspicata da Leopardi (1821) è vecchia più della Comunità Economica. C’è modo e modo di scomodare le parole english. I richiami a Eliot di Andrea Maietti sono finemente avvicendati con quelli del “principe della zolla” (Gianni Brera), Cécu Ferrari preferiva ironizzare, Bruno Pezzini non ha trovato ancora come adattare l’inglese ai modi di dire del repertorio lodigiano. Una volta, il Borella di Montanaso, mi diede lezione sulla polivalenza e ambiguità semantica dell’inglese recitando in ludesàn un rosario trend setter: Monclayr, Timberland, Lloyd, Rayban, Simon Le Bon, jeans. shopping, targhet, look, soft, hard, surf, derby, show, yuppie, corner, griffe, badget, shopping, deejay... Bersaglio: la fashin victim. Cioè noi guggie di città, “sloganisti della penna” seguaci delle mode. Citare dall’inglese e dall’americano non corrisponde a esigenze di comunicazione. Ha più i caratteri del capriccio e del narcisismo. Della infatuazione di sé, di chi scrive. Una volta l’autocompiacimento si cercava in latino. Oggi è più facile trovarlo nell’inglese. In uno scritto, in un articolo si ricorre volentieri alla parolina inglese, perché fa “in”, rende tutto più semplice morbido e dolce, e anche trend, (dall’antico inglese trendam, che vuol dire - me lo hanno tradotto - “girarci intorno”).La citazione – diceva Age Bassi – “mette al riparo da critiche. Se citi il Manzoni o Chesterton chi vuoi ti faccia le pulci?”. L’inglese si riporta nelle cronache di hochey, baseball, basket, cinema , nelle varianti della moda e in quelle rockettare. Citazionismo è nei comuni dizionari. Appena scrivi di una mostra o di un libro, c’è subito chi si preoccupa di controllare se il suo nome è stato citato. La citazione è uno strumento di lavoro. Soprattutto per artisti e scrittori. Umberto Eco, confessò che Il nome della rosa è un romanzo dove non c’è una parola sua, che tutto è citato ( non dall’inglese). Un termine english o yankee vuol dire tante cose diverse, spesso contrarie. L’angloamericano è lingua plurivalente, affidata alla pronuncia. La sua egemonia è imposta dalla scienza, dai mercati, dalla finanza, dall’informatica, dalla pubblicità, dalla tecnologia, dalla burotica, dal commerciale, dal giornalese tv. Dalla necessità di semplificare. Hanno un bel dire gli Accademici della Crusca.Nel ’65, Pasolini avvisò che ci aspettava una nuova lingua: “quella della borghesia tecnologica”. Del “ciclo produzione-consenso”. “Invaderà il lessico- scriveva -; e la forza dei dialetti si spegnerà”. L’italiano ormai marcia verso l’italese. Fenomeni di trasformazione sono sempre accaduti. Oggi hanno un carattere più veloce, esteso e decisivo. A noi ex giovani sotto esame non resta che prenderne atto. In sostituzione della mancata ispirazione letteraria (Arbasino la chiama il quotidiano “che palle!”), auguriamoci ci lascino almeno il conforto di prendere parte, con qualche parola a prestito, al cambio generazionale.

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