La scuola e i professori inadatti

Due sono gli episodi accaduti in questi ultimi giorni che meritano una particolare riflessione, non fosse altro che per quell’articolo 33 della Costituzione: «L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento». Ma davvero è proprio così? Vediamo cosa è successo a Senigallia e a Roma. Un giovane professore, Nicola Mancini, destinatario di una cattedra al Liceo Scientifico «Medi» di Senigallia, viene apertamente contestato da un gruppo di genitori perché «no global». In buona sostanza in quanto attivista di un centro sociale del posto artefice dei disordini avvenuti in città durante la visita di Matteo Salvini, viene invitato ad andare altrove. Tanto basta per mettere in dubbio le sue effettive capacità di educare i ragazzi senza macchiarsi di sinistri condizionamenti. A nulla valgonole prese di posizione dei ragazzi che lo hanno già avuto come insegnante precario, sottolineandone, con immutata stima, il senso di professionalità mostrato durante la comune esperienza di educatore e insegnante. Ma per un gruppo di genitori questo non è sufficiente perché chi si macchia di attivismo fuori sistema va tenuto lontano dalla scuola e dai ragazzi. Sono in gioco valori educativi messi a dura prova con comportamenti violenti e reazionari. Altro è quanto accaduto presso l’Istituto professionale «Einaudi» di Roma. Qui a farne le spese mediatiche è Giovanni Scattone professore di Psicologia salito alla cronaca nera per l’assassinio di Marta Russo avvenuto all’interno dell’Università «La Sapienza» alla fine degli anni novanta. Il docente, che per questo delitto si è sempre dichiarato innocente, ha già scontato la pena e dal 2011 è tornato all’insegnamento prima come supplente presso il Liceo Scientifico «Cavour» di Roma e ora grazie alla legge sulla «Buona Scuola» è entrato in ruolo presso l’Istituto «Einaudi». Ma la sua nomina non è passata inosservata. Le reazioni della famiglia Russo non si sono fatte attendere tanto da essere le più seguite nel frastuono mediatico, costringendo Scattone a rivedere la propria decisione. «Se la coscienza mi dice di poter insegnare, la mancanza di serenità mi induce a rinunciare all’incarico» è l’amaro commento del docente. Una decisione ritenuta giusta dalla madre di Marta Russo: «Sono soddisfatta - ha commentato - soprattutto per i ragazzi. Giustizia è fatta. Sono contenta per gli studenti che non avranno come insegnante una persona così inadatta ad essere un educatore». Sulla questione è intervenuta anche il Ministro dell’Istruzione Stefania Giannini con un commento che non lascia dubbi: «Sarei tranquilla se mia figlia fosse nella scuola dove insegna il professor Scattone. Ha espiato la condanna che non prevedeva l’interdizione dai pubblici servizi. Semmai è lui che ora deve prendere posizione. E’ un problema della sua coscienza». In entrambi i casi, dunque, viene posta la massima attenzione sui valori educativi ritenuti indispensabili messaggi nell’ambito di esempi e comportamenti che un docente deve trasmettere alle giovani generazioni. Qui siamo di fronte a un docente «no global» e a un altro «condannato», in entrambi i casi la questione fondamentale che viene posta è la messa in dubbio della loro «autorevolezza» in classe a causa di un passato trascorso tra attivismo e grave delitto. Fardelli che pesano a tal punto da generare proteste e guarda caso solo da parte di genitori e non di studenti. Che gli studenti siano più buoni nei giudizi? Non credo. Non è questione di buonismo, né di durezza. Se mai volessi approfondire la questione, credo di poter dire che qui stiamo assistendo alla messa in discussione dello stato di diritto. Nel primo caso non si può organizzare una rivolta solo perché un insegnante è anche un attivista politico. Su di lui, come su tutti i docenti, va esercitata un’attenta vigilanza da parte del preside. La professionalità di un docente passa da un’attenta visione dei valori che riesce a trasmettere più che da un accorto senso di attivismo ideologico. Resta, tuttavia, un punto fermo. Un docente attivista non può fare il «no global» in classe. In classe deve essere un professore, deve mettersi al servizio dei suoi studenti a cui non deve mai far venir meno lo scopo principale per cui insegna: lasciare il segno. I ragazzi tanto più ameranno e stimeranno un insegnante quanto più riuscirà a trasmettere non solo conoscenze, ma anche fiducia attraverso un corretto rapporto comunicativo fatto di parole, gesti e testimonianze. In altre parole si educa non solo attraverso «ciò che si dice», ma anche e soprattutto attraverso «ciò che si fa» e «ciò che si è». Fare il «no global» è sicuramente più facile che fare l’insegnante. Parole e gesti sono parte integrante della storia di ciascuno di noi, ma di più lo è il comportamento per cui si diventa un modello positivo o negativo fino a influenzare notevolmente la coscienza di ciascuno. In questo i dubbi dei genitori possono trovare consistenza. Ma la classe è il luogo più adatto a porsi come valido esempio di comunicazione perché è lì che giorno dopo giorno si aiutano i ragazzi a crescere culturalmente e umanamente. Tirare molotov, sassi, scontrarsi con i poliziotti, macchiarsi di comportamenti delittuosi sono contegni che vanno censurati e contrastati, tuttavia garantire la libertà a ciascun docente di trasmettere il sapere, non deve lasciare indifferente nessuno che abbia a cuore la crescita dei ragazzi. Il prestigio di un insegnante cresce e si afferma solo quando nel porre una questione riesce ad andare oltre la propria visione per prospettare ai ragazzi l’esistenza di diverse e differenti opinioni. Confrontare, valutare, compiere scelte sono atti consapevoli che da soli alimentano scelte corrette e motivate. D’altro canto non ridare una speranza a chi si vede riabilitato dopo una condanna scontata in obbedienza all’esito giudiziario espresso in un regolare processo, diventa un atto che lede il diritto di chi sente il bisogno di riprendere un cammino. La pena scontata è sinonimo di espiazione della condanna ricevuta. In simili casi il soggetto, e questo può essere anche un insegnante peraltro mai interdetto dai pubblici uffici, ha il diritto di riprendersi lo spazio di libertà restituita. Non può esserci contemporaneità tra una pena scontata per la giustizia e una condanna restituita dalla società.

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