Il degrado delle carceri italiane

Satyagraha è parola indiana di origine sanscrita, a sua volta composta da due parole che in lingua italiana significano verità e fermezza: indica una lotta politica e sociale che si avvale di modalità non violente. Il termine è divenuto attuale negli ultimi giorni: satyagraha è denominato lo sciopero della fame e della sete di Marco Pannella, forma di protesta di forte valore simbolico e animata da tensione etica per denunciare la situazione di degrado e illegalità dei penitenziari italiani; domenica scorsa, 14 agosto, allo storico leader radicale si sono affiancati oltre duemila cittadine e cittadini, che hanno aderito all’appello per la convocazione straordinaria del Parlamento su giustizia e carceri, «questione di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile» (così il Presidente della Repubblica). Tra queste 2.098 persone sono direttori di istituti di pena (ma anche addetti al trattamento, cappellani, agenti di polizia penitenziaria), esponenti dei sindacati di settore e parlamentari, volontari all’interno delle carceri e cittadini che hanno a cuore la democrazia, detenuti e loro familiari. Una ventina i lodigiani, volontari e detenuti agli arresti domiciliari. È significativo che molte delle adesioni, anche nel territorio, siano di donne: come suggerisce Luigi Manconi (tra i primi firmatari dell’appello), è il legame affettivo, con la famiglia e con la comunità, a dare forza e parola alle donne che, per ragioni diverse, sono in relazione con il carcere (ove pure le detenute sono assoluta minoranza: poco più del 4%).

Le ragioni del degrado e dell’illegalità dei penitenziari italiani sono note: in primo luogo il dato fisico del sovraffollamento (67.000 detenuti a fronte di una disponibilità di 45.000 posti). E sono note anche le ragioni del sovraffollamento: l’abuso dell’istituto della custodia cautelare e la criminalizzazione di condizioni amministrative o comportamenti ritenuti di disordine sociale. Riguardo alla custodia cautelare, circa il 40% delle persone detenute in Italia è in attesa del primo grado di giudizio; di queste - in base alle statistiche – presumibilmente la metà sarà giudicata non colpevole, e a buon diritto richiederà allo stato il risarcimento per l’ingiusta detenzione subita: una bella perdita in termini economici, per di più in tempo di crisi. Riguardo alla criminalizzazione evitabile, considerato che la definizione di un atto come criminale non è assoluta, ma varia nel tempo (e nello spazio), è evidente che considerare reato il soggiorno illegale nel paese e il consumo personale di stupefacenti ha l’effetto di riempire le carceri e di punire persone che scontano uno status o una condizione assimilabile alla malattia, senza per altro risolvere alcun problema connesso all’irregolarità o alla dipendenza.

Oltre al sovraffollamento, degrado e illegalità sono il prodotto della mancanza cronica di risorse e di personale (sia agenti, sia educatori, assistenti sociali, psicologi), con effetti drammatici: in alcune carceri non c’è vitto sufficiente per tutti i reclusi neppure una volta al giorno (per i tre pasti quotidiani di un detenuto si spendono 3,80 euro!), in molte carceri il necessario trattamento rieducativo è di necessità limitatissimo, o inesistente (quando non si fa a forza di botte: il caso di Stefano Cucchi, per altro non isolato, insegna).

Eppure il carcere non è la sola forma di pena possibile in risposta al delitto, tant’è che nel mondo antico pressoché non esisteva e che la sua invenzione risale all’età moderna. È vero, d’altra parte, che l’opinione pubblica richiede sempre più prigione, come di norma avviene nei periodi di crisi economica, quando le condizioni di detenzione devono essere, ricorda Vincenzo Ruggiero, «meno appetibili della peggiore delle condizioni sociali del mondo libero». Ma uno stato democratico non può e non deve sottostare ad alcuna tirannide, neppure a quella dell’opinione pubblica: la nascita del diritto corrisponde infatti alla consapevolezza della necessità di sottrarre al singolo (alla sua famiglia, al suo gruppo) la vendetta per un torto subito, per trasformarla in giustizia e risarcimento (o riparazione, come sarebbe auspicabile): la logica del «Peggio per loro: se la sono voluta, se la godono», che risponde all’appassionato desiderio di punire dell’uomo qualunque, va dunque rifiutata, perché “noi” non possiamo agire come i peggiori di “loro” e perché le persone vanno trattate coerentemente con la loro dignità e il loro valore di esseri umani. Uno stato democratico ha poi il dovere di proteggere le vite dei cittadini che gli sono affidate, le “nude vite” dei detenuti, i quali – è bene ricordarlo - non dispongono di quasi nulla (né cellulare, né musica, né facebook) e quasi nulla decidono (neppure quando accendere o spegnere la luce): sono perciò una ferita gravissima per lo stato gli atti di autolesionismo e i suicidi nelle carceri italiane, espressione estrema del tentativo di fuggire da condizioni inumane e intollerabili.

La privazione della libertà, da sé sola, è infatti condizione di pena sufficiente (la sola prevista, per altro, dalla legge), in particolare in un luogo, il carcere, in cui il tempo non è oggettivo, ma percepito come sospeso o dilatato: quanto eccede dalla privazione della libertà personale è crudeltà e vendetta, sofferenza sterile inflitta ai corpi e alle menti dei reclusi. Le carceri italiane sono luoghi non solo di violazione dei diritti umani, ma anche di provata inefficacia: dagli istituti penitenziari le persone escono spesso peggiori di quando sono entrate, e perciò la recidiva, ovvero la reiterazione di un reato, è alta. Questo dimostra che l’equazione «più carcere più sicurezza» è del tutto errata: è corretto invece, in prospettiva, depenalizzare i reati minori e ridurre il ricorso alla detenzione carceraria; nell’immediato, porre in atto dispositivi eccezionali quali l’amnistia e l’indulto (i cui beneficiari presentano una percentuale di recidiva modesta), in risposta a una situazione di degrado e di illegalità eccezionale.

«Qui non c’è più decoro, le carceri d’oro ma chi le ha mai viste chissà – così Fabrizio De André, dando voce a un immaginario brigadiere di Poggioreale – chiste so’ fatiscienti, pe’ chisto i fetienti se tengono l’immunità». La canzone “Don Raffaè” fu scritta nel 1990, ventuno anni fa: ripristinare nelle carceri italiane condizioni di vita umane e dignitose è ora un’urgenza non più differibile.

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