Detenuti, nuova legge, antichi mali

Il 20 agosto, giorno successivo alla pubblicazione in «Gazzetta Ufficiale», è divenuta esecutiva la cosiddetta legge “svuota-carceri” - disposizioni urgenti in materia di esecuzione della pena -, ovvero il decreto presentato dal Presidente del Consiglio Enrico Letta e dal Ministro della giustizia Annamaria Cancellieri il 1° luglio, convertito nella legge 94/2013 il 9 agosto, a conclusione di un iter parlamentare durato poco più di un mese.Le ragioni di questo percorso insolitamente celere, specie se in relazione ai tempi lunghissimi della giustizia italiana, sono ben evidenziate all’interno del testo dalle parole del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che rileva «il perdurare del sovraffollamento delle carceri e il conseguente stato di tensione all’interno degli istituti»; l’insufficienza dei dispositivi – altrettanti “svuota-carceri” – introdotti tra il novembre 2010 e il febbraio 2012; il mancato completamento del «piano straordinario penitenziario» e la mancata adozione della «riforma della disciplina delle misure alternative alla detenzione»; il termine perentorio di un anno che la Corte europea dei diritti dell’uomo, con sentenza dell’8 gennaio 2013, ha assegnato allo Stato italiano per «procedere all’adozione delle misure necessarie a porre rimedio alla constatata violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che sancisce il divieto di pene o trattamenti inumani o degradanti»: tale è infatti il sovraffollamento, male ormai antico delle carceri italiane. Ecco, dunque, le ragioni dell’inconsueta celerità nell’adozione di misure per ridurre il numero delle persone detenute e internate, introducendo contestualmente modifiche alle norme del codice di procedura penale e dell’ordinamento penitenziario: ragioni non solo umanitarie (per quanto l’umanità dovrebbe essere pratica della politica), ma anche e soprattutto giuridiche, tese a evitare al nostro paese una nuova condanna.Al 30 giugno scorso la popolazione detenuta toccava quota 66.028 (fonte: DAP – Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria), a fronte di una capienza regolamentare di 47.045 posti (fonte: DAP, 31.03.2013), o forse soltanto 45.000 (fonte: Ufficio Tecnico per l’Edilizia penitenziaria, 10.04.2013). Se l’esatta capienza delle carceri non è facilmente determinabile neppure dall’amministrazione, è tuttavia evidente che per riportare il sistema a una situazione legale e sostenibile occorre ridurre il numero dei reclusi di circa 20.000 unità. Cosa impossibile, al momento, poiché non saranno più di 4.000 (stima per eccesso) le persone ristrette beneficiarie della nuova legge, che - al pari di quelle che l’hanno preceduta - non manterrà le promesse insite nel suo nome.La ratio, l’intenzione, della legge 94/2013 è quella di intervenire sui flussi carcerari, in entrata e in uscita, favorendo la decarcerizzazione di soggetti di non elevata pericolosità, fermo restando l’ingresso e la permanenza negli istituti di persone condannate a pene definitive per reati di rilevante allarme sociale. Per quanto riguarda gli ingressi in carcere, da ora in avanti, la custodia cautelare (in attesa di giudizio) è disposta infatti soltanto per gli autori di delitti di particolare gravità, per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, ivi compresi i reati persecutori e il reato di finanziamento illecito dei partiti. Va rilevato che dei 66.028 detenuti, ben 12.210 sono in attesa del primo grado del giudizio, dunque, tecnicamente, sono innocenti; di questi, in base alle statistiche, circa metà saranno effettivamente riconosciuti tali e avranno pertanto scontato una detenzione ingiusta; i condannati in via definitiva sono infatti 40.301, meno dei due terzi del totale. È poi innalzato a quattro anni il limite di pena per la sospensione di esecuzione nei confronti di condannati portatori di specifiche fragilità (per esempio donne in stato di gravidanza).Per quanto riguarda le uscite dalla detenzione, l’intervento più significativo è quello sulla cosiddetta “liberazione anticipata”, che premia con una riduzione di pena pari a 45 giorni per semestre il detenuto che in carcere mantiene una condotta regolare e collabora al trattamento rieducativo: quando – computate le detrazioni - la pena residua da espiare non supera i tre anni (sei per i reati commessi in relazione allo stato di tossicodipendenza), il pubblico ministero trasmette «senza ritardo» gli atti al magistrato di sorveglianza, affinché questi provveda all’eventuale applicazione della liberazione anticipata. Con il criterio guida della non pericolosità sociale, sono infine abrogate le disposizioni che limitano per i condannati recidivi l’accesso ai benefici penitenziari e vietano la concessione di misure alternative per più di una volta.Va altresì sottolineato che decarcerizzazione non significa libertà, ma possibilità di scontare la pena avvalendosi di misure alternative al carcere: detenzione domiciliare, o (nel caso di residuo di pena inferiore a tre anni) affidamento in prova ai servizi sociali; misure ormai note anche ai non addetti ai lavori in ragione delle vicende del primo Presidente del Consiglio della XVI legislatura. Al contrario di quanto comunemente si crede, la condizione della detenzione domiciliare - per gli obblighi, i divieti, le prescrizioni che comporta - non è affatto semplice; quanto all’affidamento in prova, contempla anch’esso limiti oggettivi e presuppone la stipula di un contratto di lavoro, che di norma è la stessa persona ristretta a ricercare e attivare. Riguardo al lavoro, meritoriamente, la legge 94/2013 prevede sgravi contributivi per le imprese che assumano persone ex detenute o detenute e la possibilità per queste ultime di effettuare lavori di pubblica utilità.La nuova legge in materia di esecuzione della pena rappresenta senza dubbio un primo passo in direzione del ripristino della legalità negli istituti penitenziari italiani. Basta che non sia l’ultimo. Perché i mali del carcere, mali antichi, restano comunque tutti, o quasi: il sovraffollamento, che è all’origine di malattie infettive e patologie psicofisiche; la discrezionalità agita dalle direzioni nei confronti dei detenuti, che ne sono ostaggi in ragione del carattere inglobante dell’ultima istituzione totale; il ricorso all’autolesionismo, fino all’annullamento di sé. Non cala, infatti, il numero dei detenuti suicidi: 35 dall’inizio del 2013 (24 impiccati, 8 asfissiati con il gas, 3 dissanguati), 21 anni il più giovane e 77 il più anziano (fonte: Ristretti Orizzonti, 17.08.2013). Suicidi, pure dall’inizio del 2013, anche 7 agenti di polizia penitenziaria, testimoni di degrado e dolore (fonte: SAPPE – Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria, 12.08.2013).Il dibattito politico, in queste settimane, non sa sottrarsi all’attenzione ossessiva nei confronti di un solo, possibile e futuro detenuto “eccellente”. È giusto, invece, guardare ai 66.028 (o quanti sono ora) detenuti già ristretti nelle carceri italiane. Criminali? «Può darsi – annota Eduard Limonov nelle sue “Memorie di uno scrittore in prigione” (straordinarie!) – Hanno commesso i loro crimini in una manciata di minuti o in poche ore, ma il resto del tempo non erano e non sono delinquenti. Sono persone…».

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