Cosa sta succedendo alla Fiat?

Che succede all’ex più grande azienda italiana, quella Fiat il cui stato di salute coincideva con quello nazionale? La storia: poco più di due anni fa l’amministratore delegato Sergio Marchionne - anche per rimbeccare l’accusa di voler portare l’azienda al di là dell’oceano - dichiarò che la Fiat metteva sul piatto 20 miliardi di euro d’investimenti per dare vita a Fabbrica Italia, cioè a un vigoroso potenziamento degli stabilimenti produttivi sul nostro territorio per portarli all’avanguardia mondiale. Il primo miliardo e mezzo era per il derelitto Pomigliano, lo stabilimento campano ex Alfa ormai vecchiotto e con un tasso d’assenteismo medio da brividi. Soldi sì, ma dovevano cambiare i rapporti tra dipendenti e azienda secondo nuove regole che furono accettate solo da Cisl e Uil, mentre la Fiom Cgil condusse una battaglia anti-Marchionne sulla quale non è ancora stata detta la parola fine. Quei 20 miliardi fecero strabuzzare gli occhi di tutti, generando parecchie perplessità. I più teneri verso Marchionne sospettavano che la cifra in gioco sarebbe stata nettamente inferiore. I marchi Fiat-Alfa-Lancia non stavano certo passando il momento migliore della loro storia, ed era dato per scontato da tutti che l’Europa avesse un eccesso di capacità produttiva nel settore auto. Nel frattempo l’azienda torinese stava concentrando i suoi sforzi sul marchio Chrysler, rilevato nel 2008 quando non valeva niente e prontamente riportato a redditività. In più, Fiat aveva concluso un accordo (molto vantaggioso) con il governo serbo per realizzare a Kragujevac un nuovo stabilimento dove produrre alcuni modelli, a cominciare dalla nuova Cinquecento L. Inutile dire che i detrattori di Marchionne considerarono quell’annuncio alla stregua di una barzelletta o, peggio, di fumo gettato negli occhi dell’opinione pubblica per far passare il nuovo contratto a Pomigliano. Oggi siamo nel secondo semestre del 2012. Le vendite in Italia sono tornate ai livelli di 40 anni fa. Centinaia di migliaia di auto vendute in meno, rispetto allo scorso anno. Un tracollo che ha coinvolto anche Fiat, tanto che qualche mese fa lo stesso Marchionne ebbe a dire che, con questi chiari di luna, almeno uno stabilimento italiano su cinque (il gruppo occupa in tutto 25 mila dipendenti) era a rischio chiusura. Qualche giorno fa, la ciliegina: addio ai 20 miliardi d’investimenti - ha detto Marchionne -, non ci sono e non ci saranno le condizioni per accrescere il settore auto in Italia. Anzi, chissà se sopravvivrà a questa crisi. Apriti cielo. I detrattori hanno intonato il “ve l’avevo detto”, fino alla clamorosa boutade di un altro grande imprenditore italiano, quel Diego Della Valle patron di Tod’s (ma anche investitore in banche, assicurazioni, giornali, ferrovie) che ha detto papale papale: Marchionne ha ingannato gli italiani, la proprietà Elkann-Agnelli è mediocre, ha sempre avuto molto dallo Stato e ora se ne va negli Usa senza restituire qualcosa; fanno solo i loro interessi dimenticandosi dell’Italia e mandando al macero l’industria automobilistica. Segue dibattito, reso delicato dal fatto che - ad esempio - sia Fiat sia Della Valle sono azionisti del “Corriere della Sera”. Al governo è stato chiesto d’intervenire o almeno d’interessarsi della questione, anche se Mario Monti pochi mesi fa aveva detto chiaramente che Fiat è libera d’investire dove meglio le aggrada. Ora Monti dovrà essere un po’ meno liberista, in un momento in cui ci s’incatena ai cancelli delle fabbriche pur di non perdere il lavoro. Chi ha ragione? Non ce n’è una, di ragione. Ce ne sono diverse, contrapposte. Fiat è un’azienda privata con una miriade di azionisti; il suo compito è massimizzare i profitti, secondo una logica anglosassone oggi un po’ in crisi. Ma si sente la coscienza pulita in questo senso perché - parliamoci chiaro - se fosse stato il profitto la stella polare, oggi in Italia la Fiat avrebbe sì e no due stabilimenti aperti, marginali rispetto al cuore del gruppo. La Fabbrica Italiana Automobili Torino è diventata una multinazionale che produce soprattutto in Usa, Brasile, Polonia, Turchia e in futuro Russia, Cina, India. I soldi li fa fuori, e li brucia qui. L’Italia è il luogo d’origine. Punto. Non le si può chiedere di produrre qui - a costi doppi e a produttività inferiore - all’infinito. Questo vale in generale per tutti i settori economici: tenere in piedi posti di lavoro che non esistono più, non ha alcun senso e lo avrà ancor meno con la riforma Fornero. Hanno delle valide ragioni pure coloro che imputano all’amministratore delegato torinese un mix di cinismo e bugie. I venti miliardi di euro, ad esempio, con tanto di Fabbrica Italia rimasta nella mente di chi l’ha sfoderata. E i tanti aiuti pubblici che l’azienda ha ricevuto in questi anni, non ultimi gli incentivi rottamazione (quelli sulle auto a metano erano “disegnati” sui modelli Fiat). E una rissosità sindacale che stona con l’idea di andarsene da qui. Noi, a Fiat, imputiamo l’arroganza con cui ha sempre bloccato l’arrivo di altre Case automobilistiche in territorio italiano. Ford prima, i giapponesi poi, i tedeschi adesso, interessati al marchio Alfa. Cosicché i giapponesi, ad esempio, hanno investito in Gran Bretagna. L’industria automobilistica inglese (Leyland, Rover) era già decotta alla fine degli anni Settanta. Le fabbriche chiusero, ma il governo favorì l’afflusso di capitali giapponesi. Oggi la Gran Bretagna ha venduto i marchi residui (Jaguar, Rolls) ad investitori stranieri, ed è diventata il secondo produttore di auto in Europa dopo la Germania: senza alcuna Casa nazionale. Decine di migliaia di posti di lavoro, molti di più con un indotto che va dall’elettronica all’acciaio, dalle plastiche agli pneumatici, dai servizi di vendita alle officine. Tutto quello che rischia di sparire in Italia, se lasceremo andare l’auto alla deriva. Non ce lo possiamo permettere.

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