Cittadini sì, ma esclusi e discriminati

«Tutto è cominciato con la democrazia – afferma Tony Benn, storico deputato labour, in Sicko di Michael Moore – prima, quando nessuno aveva il voto, tutto il potere era nelle mani dei ricchi: quello che ha fatto la democrazia è stato dare ai poveri il voto. La democrazia ha spostato il potere dai mercati azionari ai seggi elettorali, dal potere economico alle votazioni. E la domanda che veniva dal popolo era molto semplice: se riesci a trovare i soldi per uccidere le persone, puoi trovarli per aiutare le persone!».Era il 1948: la Gran Bretagna affrontava la difficile ricostruzione successiva alla seconda guerra mondiale e istituiva il servizio sanitario nazionale, pagato dai cittadini in qualità di contribuenti, pilastro del welfare state.Nello stesso 1948, anche l’Italia, riemersa dalla devastazione della dittatura fascista e dell’occupazione nazista, sanciva solennemente attraverso l’articolo 3 della Costituzione repubblicana il principio di uguaglianza dei cittadini «senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali» e il dovere dello stato di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale» che limitano di fatto tale principio.Democrazia e welfare si declinano dunque nella possibilità per tutti di avere lavoro dignitoso, stipendio sufficiente, assistenza sanitaria, buona istruzione, casa decorosa, ferie pagate, pensione adeguata. Un sistema che ora, nella morsa della crisi economica e finanziaria, è da più voci dichiarato insostenibile. Ma lo è davvero? La risposta è no.Certo la spesa pubblica ha raggiunto livelli elevati, tali da richiedere una pressione fiscale proporzionale, che vada a toccare i redditi più alti e che, soprattutto, non conceda privilegi: cosa, questa, che non corrisponde alle priorità del governo, che anzi opera riduzioni sempre più pesanti della spesa sociale, penalizzando in particolare le amministrazioni comunali. Minori sono le risorse, maggiore è la competizione sociale per l’accesso ai servizi: competizione sociale che, nel nostro paese, ha assunto (e non per caso) una connotazione marcatamente “etnica”, di contrapposizione tra italiani (noi) e stranieri (loro), che sono mediamente più poveri e più prolifici rispetto agli autoctoni. Ecco allora che i criteri tradizionali di selezione dei bisogni spostano maggiormente le prestazioni sulle persone straniere, fermo restando che comunque, numeri alla mano, i migranti non gravano sul welfare state più degli italiani, al contrario: producono infatti, a differenza degli autoctoni, più di quanto sia speso per loro: circa 11 miliardi di euro (7,5 di contributi previdenziali e 3,5 di gettito fiscale) a fronte di circa 10 (Dossier statistico 2010 sull’Immigrazione Caritas/Migrantes). E tuttavia si allargano e si accentuano le politiche dettate dal principio del «prima la nostra gente», vere e proprie discriminazioni che discendono direttamente dalla legislazione emergenziale varata negli ultimi anni (primo fra tutti l’insieme di norme del cosiddetto “pacchetto sicurezza”) e che sono implementate da precise scelte di alcune amministrazioni locali.La lista degli ambiti dai quali i cittadini stranieri sono esclusi (o ai quali hanno accesso limitato) è lunga, ma vale la pena riportarla, non fosse altro che per sfatare il pregiudizio del «tutto per loro, e gratis»: accesso alla casa pubblica e al piano casa (L. 133/08, art. 11); assegno di maternità (L. 488/99, art. 49, c. 8); assegno per nucleo familiare numeroso, di oltre tre figli (L. 388/00, art. 80, c. 5); assegno sociale, per anziani al di sopra dei 65 anni (L. 133/08, art. 20); carta acquisti (L. 133/08, art. 81); spese per latte artificiale (L. 2/09, art. 19, c. 8); assegno mensile di invalidità, indennità di accompagnamento, pensione di inabilità (L. 388/00, art. 80, c. 19). A queste voci di esclusione e limitazione per legge si aggiungono quelle individuate per delibera comunale; eccone alcune: incentivi alla natalità (Brescia); iscrizione alla scuola dell’infanzia e sussidio integrativo al minimo vitale (Milano); contributo per perdita lavoro (Villa d’Ogna); accesso agevolato alla casa per giovani coppie (Alzano Lombardo); fondo integrativo affitto (Adro); eccellenza scolastica (Chiari); alloggi per studenti universitari (Provincia di Sondrio).I criteri che informano queste politiche sono marcatamente elettorali, contrari ai principi della Costituzione repubblicana: per questo, nelle cause di discriminazione loro intentate a riguardo, i Comuni risultano regolarmente perdenti, ritirano (in silenzio) le delibere discriminatorie e pagano le spese processuali, o, per meglio dire, le fanno pagare ai propri cittadini, in quanto contribuenti. Quasi una beffa, ma non importa: avanti così, in nome del principio in base al quale occorre «tagliare anche i servizi destinati agli stranieri nella stessa percentuale» dei servizi destinati all’intera collettività. Un principio che paga in termini di consenso, ma che privilegia una via ingiusta e, secondo il parere della Corte costituzionale, impraticabile: in primo luogo perché l’inadeguatezza delle risorse disponibili non giustifica l’irragionevolezza dei criteri di distribuzione; ancora, perché le differenze di trattamento devono riferirsi a diversità circa il bisogno effettivo, con il quale la “proporzione” non ha nulla a che vedere. Una via che non produce neppure coesione sociale (che si persegue con il trattamento paritario), ma che genera invece insicurezza e intolleranza.Chi amministra la nazione e le città ha il compito di operare per «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale», che limitano di fatto «la libertà e l’eguaglianza dei cittadini» e accettare come principio di giustizia che «non c’è nulla che sia ingiusto quanto far le parti uguali tra disuguali» nel rispetto della Costituzione repubblicana (e nello spirito di don Milani): garantire i diritti del welfare state alle persone che più ne hanno bisogno significa infatti garantire la vera sicurezza, senza la quale non può esserci coesione sociale né pace duratura.

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