In un palazzo e in un castello c’è la storia di Caselle Landi

Come nei racconti di Guareschi. Ficchi la punta di un enorme, immaginario compasso sul sagrato della chiesa del paese e nel raggio di un chilometro c’è tutto: il municipio affacciato sui campi, la posta, il bar con i pensionati, il cimitero, qualche bottega. Caselle Landi è così, con le cose che servono tutte vicine. Attorno cascine, trattori che perdono fango, villette con le palme nei giardini e poco lontano il Po. L’appuntamento con il marchese Manfredi Landi è per le 11 davanti al palazzo che un suo antenato ha edificato nel Milleseicento. Quello con l’amico e fotografo Paolo Ribolini è stato prudenzialmente anticipato alle 10.45 («Così prima beviamo un caffè») in virtù dei proverbiali ritardi dell’autore degli scatti di questa pagina. La mossa si rivela decisiva. L’amico e fotografo Paolo Ribolini arriva con quasi mezz’ora di ritardo la qual cosa ci permette di presentarci dal marchese alle 11 e un quarto (e senza caffè): un tempo tutto sommato accettabile.

Il palazzo non è l’unica traccia della presenza dei Landi da queste parti, presenza che risale al 1262 quando Ubertino Landi divenne feudatario dei luoghi. «Arrivammo ad avere 50mila pertiche di terreno» narra il marchese Landi che qui viene quotidianamente da Piacenza, dove vive, per gestire un’azienda agricola da 300 ettari che produce mais, soia e pomodori. Oltre al palazzo, si diceva, resta un torrione e parte della facciata del vicino castello che la famiglia Landi adibì a residenza nel Millecinquecento. Di questo castello, oggi di altri proprietari, restano poche cose e messe male. Il palazzo è invece successivo. Risale al Milleseicento ed è nato da un progetto di Felice Landi, altro nobile antenato. Doveva essere un edificio al servizio del Sacro Ordine di Malta, come testimoniato dalla croce che ancora svetta: «Felice non aveva figli e la decisione derivava dalla sua gratitudine per essere stato accolto proprio a Malta dove si rifugiò e dove si trova la sua tomba. Non se ne fece niente - spiega il marchese - e il palazzo rimase della famiglia». La struttura del palazzo presenta peculiarità difficilmente riscontrabili in altri edifici analoghi e spesso di difficile interpretazione come gli archi che caratterizzano il fronte principale, a sua volta caratterizzato da un massiccio torrione sormontato da una torretta in corrispondenza dell’ingresso. La croce sul pennone, una piccola cappella a lato dell’ingresso (a sua volta con pianta a croce) e l’assenza di saloni di rappresentanza, affreschi pregiati e sale nobili rivelano l’uso spartano che sarebbe stato riservato a questo edificio che pur non vantando illustri frequentazioni ha visto comunque passare la storia della comunità. «I tedeschi ci stabilirono la propria base durante la seconda guerra» racconta il marchese. Negli spazi affacciati sul cortile laterale, falegnami e fabbri impiantarono le botteghe: una zona artigianale ante litteram abbandonata quando furono costruiti i primi capannoni ai margini del paese. Oggi nelle case affacciate sul cortile vivono alcune famiglie. Nella corte laterale sopravvive un artigiano, lo si sente smartellare. All’ombra del carpino al centro del cortile («Lo piantò mio padre quando nacqui nel 1941») si tengono concerti e risuonano arie d’opera. Pare di sentirli, nelle notti d’estate, gli acuti dei tenori che da qui si alzano in volo per poi planare sulle acque del Po. Proprio come nei racconto di Guareschi.

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