Luca Colombo e un argento

dedicato al giudice Borsellino

Luca Colombo e le Olimpiadi di Barcellona del 1992. Colombo è nato a Cantù, ma a San Colombano ha cominciato a correre in bicicletta ed è rimasto in zona per parecchio tempo. Luca ha già dimostrato di valere ed è chiamato all’appuntamento olimpico, fa parte del quartetto della 100 chilometri contro il tempo: è una gara tremenda nella sua espressione tecnica, una sorta di simbiosi dei ciclisti con l’asfalto. L’Italia vanta una solida tradizione e nelle precedenti edizioni dei Giochi spesso sono arrivate medaglie. Il ct Giosuè Zenoni conclude un lavoro di quattro anni sulla squadra, gli uomini sono stati scelti da tempo e hanno gareggiato assieme più volte. Nel 1991 ai Mondiali hanno vinto l’oro. Nella rassegna spagnola si presentano favoritissimi, il pronostico degli addetti ai lavori è tutto per loro. Flavio Anastasia, Gianfranco Contri, Andrea Peron e Luca Colombo, questi i quattro della 100. Luca, ventidue anni e mezzo, arriva all’appuntamento carico di credenziali. Ha vinto i titoli mondiali Juniores nel 1986 e nel 1987 e quello Dilettanti nel 1991, sempre quale componente del quartetto.

Il circuito di Montmelò è piuttosto anomalo, presenta curve a saliscendi, non i lunghi rettilinei dove il “treno” può esprimersi al meglio. La Germania è l’avversaria più temibile: nei quattro precedenti tre vittorie nostre (fra cui nel Mondiale del 1991), mentre l’unica sconfitta è da attribuirsi al fatto che Zenoni, in quello scontro, stava “provando” le riserve. Si corre con un gran caldo, il nastro d’asfalto ha riflessi multicolori. Gli azzurri partono decisi e dopo una ventina di chilometri il loro vantaggio sui tedeschi è di 17 secondi. Si mantiene su quel livello fino al giro di boa dei 50 chilometri. Poi il quartetto azzurro lentamente si sbriciola, la Germania prende la testa, aumenta il distacco nel finale. Per i tedeschi è l’oro, l’Italia, staccata di 59 secondi si deve accontentare dell’argento. Ricordo la telefonata concitata e amara di Mario Carelli, il mentore di Colombo, che lo seguiva e lo allenava. L’articolo sul giornale, già volto ai peana, doveva essere cambiato. Così Luca si espresse anni dopo: «Sono stati i 59 secondi più lunghi della mia vita. Quando ci penso mi rendo conto di aver sfiorato un’impresa di eccezionale valore. Invece, solo l’argento...». Gli chiedemmo che cosa era successo, non erano loro i più forti? «Nei precedenti confronti con i tedeschi nei primi 50 chilometri avevamo sempre un vantaggio notevole, sempre oltre il minuto. Questo non successe a Barcellona. Può aver influito sul nostro rendimento l’ansia che ci prese nel non riuscire a ripetere gli exploit precedenti. Ci mancò la reazione. Se qualcuno di noi ha ceduto? No, neppure a distanza di tempo voglio fare dei nomi». Aggiunse che il ct Zenoni li elogiò, condivise la loro analisi della corsa: insomma i tedeschi in quella domenica di luglio erano stati più forti.

Il rammarico affiorò nelle sue parole: «Partecipare a un Olimpiade è un avvenimento che riempie una vita, non c’è paragone con i campionati del mondo. Il mio argento olimpico vale più degli ori conquistati ai Mondiali. Non è questa una mia valutazione personale, è così per tutti. I professionisti che prima snobbavano le Olimpiadi ora che sono ammessi a partecipare si scannano per avere un posto in squadra».

Per Luca un’altra amarezza è dietro l’angolo. Non viene selezionato per i Mondiali del 1993 e non si dà pace per l’esclusione: Un anno dopo però torna nel quartetto azzurro che va a vincere l’iride a Oslo, dimostrando che era stato un errore lasciarlo fuori. Alle Olimpiadi spagnole la 100 chilometri era al suo ultimo appuntamento, non c’è più stata nelle edizioni a venire. Ormai Luca ha dimostrato che nelle corse a cronometro, anche in quelle individuali nelle quali si è cimentato (rappresentò l’Italia ai Mondiali di Agrigento del 1994, pur essendo Dilettante) ci sa fare. Passa professionista nel 1995, per due anni con i colori della Aki Gipiemme e nel 1997 con quelli della Batik Del Monte. Per lui tre stagioni avare di soddisfazioni, non ottiene alcun risultato di rilievo. È un mondo che non sente suo, si trova a disagio, non riesce a esprimere il suo indubbio valore tecnico. A fine 1997 la sua avventura fra i “pro” si chiude, ma non molla la bicicletta. Gareggia fra gli amatori con la maglia dell’Autoberretta fino al 2006, ultimo anno di attività. Vince un’infinità di gare: una quarantina all’anno per nove anni, cifra approssimativa poiché non ricorda neppure lui quante volte è arrivato primo. Gareggiare così, senza assilli, per passione, lontano dalle ribalte del grande ciclismo: è stata questa la via che ha scelto.

Luca Colombo, oggi, vent’anni dopo l’argento delle Olimpiadi, abita a Piacenza con la moglie Catia e la figlia Rebecca. Lavora alla Pulinet di Lodi: «Quando penso a quella gara, a quella medaglia d’oro che credevamo tutti fortemente di poter vincere, emerge ancora il rammarico. Quella vittoria sarebbe stata una cosa a sé, unica nella vita di un atleta». Un ricordo: «Corremmo la domenica mattina e il nostro argento fu la prima medaglia italiana conquistata. La dedicammo a Paolo Borsellino, assassinato una settimana prima». È sempre arduo entrare nei pensieri della gente, un tentativo va comunque fatto. A ventotto anni te ne sei andato dal ciclismo professionistico, d’accordo i risultati non venivano, ma fornisci una motivazione più concreta. «Quando uno sport diventa un lavoro può succedere che non piaccia: è quello che è capitato a me».

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