Emilio Marchi, un campione semplice e coraggioso che sfidava i grandissimi

“Storie e personaggi dello sport dei pionieri”, la rubrica di Aldo Papagni

Ha giocato con la morte in sella a una moto sulle strade polverose di un’Italia povera e dignitosa, ferita dalla catastrofe immane della guerra e ancora inconsapevole di quale altra tragedia le si stesse preparando. È caduto per un agguato del destino in un caldo pomeriggio d’estate che aveva dedicato all’umile svago della gente comune, un tuffo nel fiume della sua infanzia, quel giorno rivelatosi fatalmente traditore. Emilio Marchi era così, un campione semplice e coraggioso, un profeta della velocità audace e istintivo, che il nascente regime aveva eletto suo malgrado a prototipo dell’uomo nuovo chiamato a risollevare le sorti di un Paese tradito e confuso. Ma al giovane Marchi interessava soltanto correre, filare a cento all’ora oltre ogni avversario, sentire nelle orecchie il rombo amico del motore. Il 1926 è la sua grande stagione. Quell’anno domina sul Circuito Ostiense, ai Campi Flegrei e a Napoli, cedendo per l’inezia di tre miseri punti il titolo tricolore delle 500 ad Achille Varzi, uno dei più grandi di sempre, che gli soffia il primato nell’ultima prova, il 14 novembre, sul circuito mantovano di Belfiore.

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