Rubriche/StorieImmigrati
Mercoledì 07 Settembre 2011
«Voglio dare un futuro a mio figlio»
A Lodi Viorica fa la badante, in Romania i soldi non bastavano mai
Viorica in rumeno significa viola. E proprio come questo fiore timido, simbolo dell’amore, Viorica trasmette un senso di dolcezza e fragilità che non può lasciare indifferenti. Lo si percepisce dallo sguardo fuggente, dal tono di voce sommesso, dai modi delicati, dalle lacrime sempre pronte a spuntare. Viorica ci ha raccontato la sua storia seduta al tavolo della sala riunioni della Casa Gattorno. Una storia in cui i momenti di grande felicità hanno lasciato spazio a una profonda tristezza, in cui i periodi sereni sembrano destinati a non tornare mai più.C’è tanto amore in questa donna, tanto amore per il figlio adottato quando aveva solo tre giorni. Ogni scelta è stata fatta per lui: per quel frugoletto che oggi ha tredici anni e che «a scuola è bravissimo, un bambino in gamba, bravissimo, davvero bravissimo. È la mia vita».Buongiorno signore, mi chiamo Elisa, scrivo le storie di immigrati per Il Cittadino. C’è qualcuna di voi che mi dedicherebbe qualche minuto? Vorrei conoscere la storia di una di voi, una qualsiasi. «Io l’ho già fatto, vai tu, Viorica».«Ma sono emozionata».
Non aver paura, ti chiede solo come ti trovi qui... «E se non sono capace? Se non capisco?».
Non si preoccupi, signora, vedrà che è tutto tranquillo, procediamo con calma, le domande sono semplicissime, riguardano la sua vita.«Va bene, allora, ma sono emozionata».
Vuole seguirmi nella sala riunioni?«Sì, ma sono emozionata».
Eccoci. «Mi chiamo Viorica, ho cinquantatré anni, vengo dalla Romania, sono in Italia da tre anni».
Bene. Stia tranquilla, è come se facessimo due chiacchiere tra amiche. Com’era la sua vita prima di partire?«Per un po’ è stata una vita normale: mio marito guidava mezzi pesanti nei cantieri, io avevo un posto in fabbrica da operaia. Per quindici anni avevo lavorato in una ditta di conserve».
Di che tipo?«Di tutto: carne, pesce, marmellate, qualsiasi cosa. Poi, dopo la chiusura, era stata la volta di una ditta italiana. Si chiamava Maglierie».
Indovino cosa produceva: abbigliamento?«Esattamente, per uomo, donna e bambino. Mi sono data da fare in quell’azienda per più di dieci anni, poi, come purtroppo accade, alla fine non ce l’ho fatta più».
Perché?«Perché i soldi non bastavano, nonostante i salti mortali e i sacrifici. Guardi, le dico la verità sulla Romania, quella che molte mie connazionali negano sapendo di mentire: il mio Paese è una terra bellissima, dove non manca quasi niente. Abbiamo paesaggi stupendi, la stragrande maggioranza della gente ha una casa in cui vivere, abbiamo giardini dove quasi tutti tengono un orto, viviamo bene, la cucina è buona e non ci si può lamentare. Manca solo un dettaglio, un unico dettaglio che mette in ginocchio il Paese: il lavoro. O, meglio, un lavoro decentemente pagato. Pensi a me: una casa di proprietà, un solo figlio, due stipendi. Possibile che una famiglia non ce la faccia? Significa che c’è qualcosa che non va nel sistema paese, non in quella casa».
Me ne sono accorta sentendo i racconti dei suoi connazionali...«Con due stipendi mangiamo, paghiamo le bollette, sosteniamo le piccole spese necessarie e non ci resta in tasca niente. Non è concepibile. Così, molti partono».
Come lei...«Giusto. Ma, mi creda, se le dico che io sarei rimasta mille e ancora mille volte a casa mia. Non perché non mi piaccia l’Italia o perché non sia soddisfatta del mio lavoro qui».
Ma perché a casa c’è la sua famiglia.«Esatto. Ecco, mi viene da piangere; mi scusi, ma appena penso alla mia famiglia».
Mi dispiace. Non ho nemmeno un fazzolettino.«Non fa niente, adesso mi passa. Eravamo alla mia famiglia. In Romania ci sono mio figlio che ha tredici anni e mia madre, di settantacinque. Questa è tutta la mia famiglia».
E suo marito?«Purtroppo è morto due anni fa. Mi trovavo qui in Italia quando è successo. Lo sapevo che stava male, ma avevamo bisogno di soldi e non potevo lasciare il lavoro. Mi scusi se piango ancora».
Non c’è problema. Parliamo un po’ di suo figlio.«Mio figlio è un bambino meraviglioso, adottato quando aveva solo tre giorni di vita tramite una persona di mia conoscenza. Ricordo ancora quando l’ho visto, piccolo, un fagottino, in ospedale: il cuore mi scoppiava dalla gioia, era bellissimo. Io e mio marito l’avevamo portato a casa direttamente dall’ospedale, le carte e i documenti erano venuti dopo, quando ormai viveva con noi. È per mio figlio che sono qui, per regalargli un futuro dignitoso, perché cresca avendo tutte le opportunità che hanno gli altri ragazzi».
È bello da parte sua.«Sì, ma mi manca tantissimo. Lo sento al telefono, una volta all’anno torno a casa; ma sono partita che aveva dieci anni, era un bambino, e adesso sta crescendo, è un adolescente; senza mamma, purtroppo».
È arrivata direttamente qui a Lodi, tre anni fa?«Macché, sono andata a Lecce. Tutti i miei familiari, fra cui cugine e zii, vivevano nel Lodigiano, ma io non lo sapevo. Così ho seguito il consiglio dell’autista che mi ha portata in Italia, il qualche conosceva una donna che a sua volta era amica di un signore che gestiva un’agenzia di lavoro a Lecce. Grazie a questo strano giro, per un anno e nove mesi ho fatto la badante nel sud Italia. È stato quando sono riuscita a mettermi in contatto con i miei parenti che mi sono trasferita a nord, più o meno un anno fa».
Da allora?«Da allora ho sempre fatto la badante. Adesso mi trovo alla Casa dell’Accoglienza Rosa Gattorno perché la persona che assistevo è stata ricoverata. Ma sabato inizio con un nuovo lavoro».
Gliel’hanno trovato le suore?«Sì. Non può immaginare quanto siano gentili. Un giorno mi sono presentata in ufficio e ho illustrato alla suora la mia situazione. Neanche il tempo di parlare e avevo il posto letto e i pasti assicurati. È qualcosa di meraviglioso, quello che queste donne fanno».
Le piace il suo lavoro da badante?«Certo, se non mi piacesse non sarei qui, non crede? Io voglio lavorare, per questo mi trovo in Italia e per questo il mio lavoro mi piace. Certo, a volte è faticoso, ma non mi lamento».
Ha del tempo libero?«Due ore tutti i giorni e poi la domenica».
E cosa fa?«Incontro le mie amiche, facciamo due passi all’Isola Carolina o al Belgiardino, beviamo un caffè; basta stare insieme, fare due chiacchiere. Qui mi trovo bene, ci sono tante persone su cui posso contare».
Si fermerà in Italia ancora per molto tempo?«Considerato che mio figlio è piccolo, direi proprio di sì. Deve avere modo di studiare, se lo desidera deve poter anche frequentare l’università».
Sono molti anni.«Verissimo, ma io sono qui per lui. Finché sarò in salute e lui avrà bisogno di me, io starò in Italia e farò la badante. Continuerò a spedire a casa i soldi messi da parte e ce la metterò tutta. Imparerò anche l’italiano».
Ma lo parla già benissimo.«Mi hanno detto che ci vogliono sette anni perché sia perfetto. Sette anni in Italia credo proprio che siano il minimo. Sì, li passerò qui. Scusi, ma mi viene ancora da piangere».
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