Rubriche/StorieImmigrati
Mercoledì 14 Settembre 2011
«Una parte di me è ancora in Camerun»
«Ho tre figli, due femmine di 12 e 5 anni, un maschio di 8, tutti nati in Italia»
Patrik ha quarantasei anni ed è un uomo che ha voluto a tutti i costi prendere in mano la propria vita. Infatti, convinto di non avere speranze nel proprio Paese natale, il Camerun, Patrik si è messo in gioco e oggi può dire tranquillamente di avercela fatta. Nel Lodigiano ha una moglie, tre figli, un lavoro sicuro e tanta serenità. «Prima di partire – ha spiegato – non facevo che ripetermi: “Qualunque cosa succeda tu vai avanti, non fermarti mai, non avere paura”. A volte stento a crederci, ma da solo ho dato una svolta alla mia esistenza. Sono stato fortunato? Sono stato coraggioso? Non lo so; quel che so è che qui mi sento felice».
Salve, ha qualche minuto da dedicarci per raccontarci la sua storia?«Sì, ce l’ho: devo aspettare e riprovare a telefonare perché a casa non rispondono. Chissà che fine hanno fatto, saranno tutti in giro. Meno male che gliel’avevo detto che avrei chiamato. Dopo riprovo».
Dove sta chiamando?«In Camerun, i miei fratelli. Ci sentiamo un paio di volte al mese, così ho notizia di come va la vita laggiù e di come stanno i miei genitori, soprattutto. E se c’è bisogno di un po’ di soldi, li spedisco. Ormai è un rito, il phone center per chiamare casa».
La sua casa è là.«Sì, è vero, dico ancora “chiamare casa” come se la mia casa non fosse qui in Italia. Una parte di me è ancora in Camerun, con la mia famiglia d’origine, l’altra è qui in Italia, invece, con la mia nuova famiglia».
Quanti siete?«Cinque: io, mia moglie e i nostri tre figli, due femmine di tredici e cinque anni, e un maschio di otto. Tutti nati in Italia».
Per il passaporto?«Anche, ovviamente, ma soprattutto per la loro sicurezza. Non è proprio il massimo nascere in un ospedale del Camerun. Per questo io e mia moglie abbiamo aspettato a costruirci una famiglia finché non siamo riusciti a ottenere il ricongiungimento. Non potevo pensare di lasciarla da sola, con il nostro futuro figlio o figlia, a migliaia di chilometri di distanza».
Perché è partito? Perché ha lasciato il suo Paese.«E me lo chiedi anche? Credo sia chiaro».
Lo so, è quasi sempre per ragioni di tipo economico. Ma vorrei sentire il suo punto di vista, vorrei che ci spiegasse.«I soldi non sono tutto nella vita, questa è una delle poche certezze che abbiamo. Ma quando mancano completamente, quando sei sotto una certa soglia, diventano tutto. Se non hai i soldi per comprarti un’auto, poco importa, vai a piedi. Se non hai i soldi per un paio di scarpe, ti metti i sandali e cammini. Ma se non hai i soldi per far studiare i tuoi figli o, peggio ancora, per dar loro da mangiare, a quel punto sì che diventano importanti. Io in Camerun ero una di quelle persone che voi definite “morto di fame”».
Spero non in senso letterale.«Quasi».
Perché? «Mi spaccavo la schiena per una ditta che produceva mattoni, dodici ore al giorno, a volte anche di più, e con quel che guadagnavo potevo a malapena mantenere me stesso, in una condizione di sussistenza, direi. Mia moglie, invece, cuciva vestiti tradizionali. In due ce la facevamo, in tre era un sogno tirare a campare. Sai di solito cosa accade a questo punto?».
Cosa?«Che un africano non ci pensa, si dice: “Se ce n’è per due ce n’è anche per tre”; e poi, poco tempo dopo: “Se ce n’è per tre ce n’è anche per quattro”; e senza pensarci, appunto, arriva alla povertà assoluta. Ho visto tanti fratelli vivere una vita miserabile per via di questa convinzione errata».
Lei, a quanto pare, aveva un altro punto di vista.«Esattamente. Io sono convinto che le cose vadano fatte con calma e soprattutto con cervello. Con mia moglie ero stato chiaro: in queste condizioni non possiamo avere figli. Lei non faceva che piangere, e la sua disperazione mi spingeva a cercare una soluzione nuova, impensata: ossia quella dell’emigrazione».
Una soluzione drastica.«A ben pensarci l’unica possibile, dal mio punto di vista. Quando sono partito non sapevo quasi nemmeno dove sarei arrivato. E chi la conosceva l’Italia? Ma avevo una certezza».
Quale?«Tanto valeva provare. In altre parole, non avevo nulla da perdere. Il mio volo atterrava a Roma, dove c’erano degli amici pronti a darmi una mano. Non sembrava un’impresa ardua, loro ce l’avevano fatta».
Di cosa si occupavano?«Per lo più lavoro in nero: chi nei cantieri, chi nelle cucine dei ristoranti, chi al mercato. Ma guadagnavano cifre interessanti, per me che ero abituato alla miseria. Ricordo di aver pensato: “Patrik, hai fatto la cosa giusta” praticamente fin dal primo giorno. Colpo di fulmine, direi, per questa bella Italia».
Confermato nel tempo?«Sì, ma dopo enormi difficoltà. Lavorare in nero va bene se il tuo obiettivo è sopravvivere e portare a casa la pagnotta. Ma se desideri metter su famiglia, allora diventa un nemico mortale. Non puoi avere un permesso di soggiorno, fatichi a trovare una casa in affitto, non puoi chiedere il ricongiungimento, sei un’ombra. Ripeto, a fine mese hai del denaro su cui contare, ma finisce lì».
E lei non poteva accontentarsi.«Certo che no. Così sei mesi dopo il mio arrivo mi sono rimesso in gioco. Sapevo di un ragazzo, mio connazionale, che viveva nel Lodigiano e che faceva il magazziniere, regolarmente assunto. I miei amici non facevano che ripetermelo: “Lui sì che è fortunato”. Verissimo, ma la fortuna aiuta gli audaci, no? Quindi, dovevo fare come lui: cercare un posto come si deve».
Aveva un’idea di quale potesse essere il suo lavoro ideale? Cosa cercava?«Lavoro ideale? Lavoro ideale è un’utopia. Io cercavo un impiego qualsiasi: dal giardiniere all’operaio passando per il muratore e l’imbianchino. Anche cuoco, se qualcuno mi avesse insegnato a cucinare. A me bastavano lo stipendio e il permesso di soggiorno. Il mio amico “lodigiano” era l’unico che poteva aiutarmi. Si trattava solo di trovare il modo per contattarlo».
Come?«Cercando la sua famiglia in Camerun e facendomi dare i riferimenti. Ovviamente, doveva pensarci mia moglie. È stata bravissima: nel giro di due giorni avevo un indirizzo e un numero di telefono. Non ci ho pensato due volte».
L’ha chiamato?«No, mi sono messo in viaggio. Non avevo tempo da perdere: il mio unico desiderio era iniziare la mia nuova vita».
Ed è andata così?«Yes. Con tanta fatica, ma è andata proprio così, ho iniziato una nuova vita. Prima grazie al mio amico, mio “fratello”, ho trovato un posto come operaio nella sua ditta – ovviamente sua perché ci lavora, non perché sia il titolare. Poi ho chiesto e ottenuto il ricongiungimento. A quel punto è arrivata mia moglie e il tempo ci ha portato tre splendidi figli, oltre a tanta serenità. Ma la fatica, ripeto, è immensa».
Perché?«Perché all’inizio mia moglie lavorava come commessa nel negozio di una connazionale, mentre adesso è a casa a occuparsi dei ragazzi. Non avevamo i nostri genitori a cui affidarli. Dopo un periodo di salti mortali, la nostra decisione è stata semplice ed efficace: lei avrebbe seguito la famiglia e io avrei pensato alla parte economica. Quindi, morale della favola, siamo in cinque con uno stipendio».
Come fate?«Io faccio gli straordinari degli straordinari. A fine mese le ore sono tantissime, fanno impressione. Ci sono dei colleghi che ogni tanto mi guardano stupiti e mi chiedono: “Patrik, ma come fai a resistere?”. Non lo sanno, loro».
Cosa?«Che io resisto perché questo è il mio sogno che si avvera».
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