«Sono boliviano, faccio l’imbianchino»

«Ho cinque bambini, non riuscivo a mantenerli, allora sono partito»

Il protagonista delle storie di immigrati di questa settimana prima di partire aveva le spalle al muro: cinque figli erano troppi, per uno stipendio da “tassista/autista”, come lui si definiva. Ma cosa poteva fare, con la sua laurea in economia e commercio equivalente a carta straccia, per risanare le sorti della sua famiglia? Arturo non ha avuto esitazioni: è salito su un aereo, è sceso in «un angolo dello stivale» e ha iniziato a rimboccarsi le maniche, senza troppe pretese né sorrisi, come la sua gente, «teste dure di montagna», sa fare. Oggi sembra sereno, se non felice: la sua famiglia ha risolto tutti i problemi economici di una vita e i sogni sono a portata di mano. Ad Arturo ne resta uno solo da realizzare: tornare a casa.

Buonasera, hai qualche minuto da dedicarmi? Vorrei scrivere la tua storia.«Bella questa, la mia storia. E a chi interessa?».

A me, e a chi legge le storie di immigrati del Cittadino.«Ho capito, almeno credo. Ma cosa te ne fai della mia storia?».

La scrivo e la faccio conoscere ai nostri lettori.«Ah. Ma cos’ha di tanto speciale la mia storia?».

Posso dirtelo quando me l’avrai raccontata. Non avere timori, è da parecchio tempo che faccio questo lavoro e mai nessuno ha avuto problemi.«Va bene, dai, incominciamo. Ma non usare il mio vero nome: non mi fa piacere che mi riconoscano».

D’accordo, così anche tu ti senti più libero nel raccontare. Iniziamo?«Vale. Cosa vuoi sapere».

Parlami del tuo Paese.«La Bolivia? E cosa posso dirti? Mi piace molto il mio Paese, e mi manca ancora di più. Mi manca la mia casa a La Paz, mi manca la cucina di mia moglie, l’aria che sembra leggera, la sensazione di toccare il cielo con un dito. Mi mancano le tradizioni di El Alto, il quartiere da cui provengo. Quello con le case senza intonaco, tanta povertà, ma anche tanta vita».

Da quanto tempo ti trovi in Italia?«Da sette anni. Da altrettanto tempo non vedo casa mia. Ci credi?».

Sì, se me lo dici. Ma non immaginavo.«Ci vogliono molte ore di volo e un sacco di soldi per tornare a La Paz e io non sono così ricco. Quindi aspetto con calma di avere messo da parte un po’ di soldi. Aspetto e vivo uno strano senso di nostalgia, perché ormai non mi mancano più solo le persone care, ma anche l’atmosfera, quella che ti fa dire: “Eccomi qui, a casa mia, fra la mia gente, al mio posto”».

Deduco che qui tu non ti senta “al tuo posto”.«No, cara, non mi ci sento proprio. Faccio un lavoro che mi piace e conosco tanta brava gente, ma non sono al mio posto. Immagina il contrario: prova a pensare di trasferirti in Bolivia senza nulla conoscere degli usi e delle tradizioni locali. Immagina di trovarti scaraventata in una città lontana, dal punto di vista culturale, anni luce dal Lodigiano. Non ti sentiresti mai al tuo posto. E se qualcuno te lo chiedesse non avresti dubbi: “Certo che no”, diresti, proprio come me».

Allora cosa ci fai qui?«Bella domanda, me lo chiedo anch’io. Poi però una risposta me la do: sto qui per i soldi. Per il “vil denaro” che manda avanti tutta la mia famiglia e fa felice tante persone. E intanto il tempo passa, tutti mi ringraziano e io sono sempre qui».

Cosa sapevi dell’Italia prima di partire?«Che è a forma di stivale, perché la osservavo sulle cartine geografiche, che si mangia tanta pasta e credo nient’altro. Anzi, no, sapevo anche che i migliori stilisti del mondo sono italiani, così come l’automobile più bella: la Ferrari. Nulla di più».

E perché hai scelto il nostro Paese?«Hai ragione, un’altra cosa la sapevo: che siete cattolici e accoglienti. Lo dicono tutti, ormai è un dato di fatto».

Cosa facevi prima di partire?«Ho una laurea in economia e commercio, sai? Ma non importa a nessuno, qui come a casa mia. In Bolivia facevo il tassista o l’autista, dipende dal punto di vista».

In che senso?«Facevo l’autista/tassista: guidavo una macchina sette posti con cui portavo le persone al lavoro seguendo un itinerario preciso. Non so se questo si avvicini di più a un servizio privato o di linea».

Non importa, è chiaro.«Altrettanto chiaro è il fatto che guadagnassi troppo poco. Stavo fuori giorno e notte, la macchina restava accesa ventiquattro ore su ventiquattro, perché mentre mi riposavo la davo in gestione a un conoscente che continuava il servizio, ma a casa mia si moriva di fame. Abbastanza scontato, con cinque figli piccoli da sfamare».

Cinque figli?«Per noi è normalissimo, anzi, auspicabile. Poi però mantenerli costa parecchio. Non avevamo da mangiare, non riuscivamo a comprare loro lo stretto necessario: “Arturo, cosa facciamo?”, continuava a ripetermi mia moglie. Avrei voluto risponderle: “E che ne so io?”, perché era questa la verità. Una sera stavo anche per farlo, scocciato, finché improvvisamente non è arrivata l’idea: partire, come tanti amici prima di me».

Di solito dal Sudamerica partono più frequentemente le donne.«Certo, ma non con cinque figli di dieci, sette, quattro, due anni e uno piccolissimo di sei mesi. Questa era la mia famiglia il giorno in cui sono salito sull’aereo portando con me tutti, e sottolineo tutti, i nostri risparmi. È stato un momento toccante».

Sapevi dove saresti andato?«Sì: Milano, in qualche angolo di quello stivale che osservavo spesso. Ma cosa vuoi che sapessi? Un bel niente. Avevo in tasca il numero di un conoscente che non sono riuscito a rintracciare per due giorni. Poverino, aveva il telefono spento, lui. E intanto io dormivo in Centrale. Meno male che è tutto passato».

Di cosa ti occupi oggi?«Direi che si vede».

Sì, ma i lettori non possono vederti.«Faccio l’imbianchino per una ditta della zona. Mi piace, il mio lavoro. Ci credi se ti dico che mi rilassa? Ma non farlo sapere al mio capo o mi abbassa lo stipendio».

Ti rilassa?«Ovviamente è un mestiere faticoso, ma non mi posso lamentare: lavoro al coperto, ascolto la musica e ogni tanto mi vengono richieste soluzioni estrose, che mi fanno sentire un po’ artista. E poi – questo è davvero importante – guadagno abbastanza per mantenere mia moglie e i miei cinque figli. Da quando mi trovo qui, sono tutti felici».

E tu?«Io tiro avanti. Dipingo e arrivo a sera. Spessissimo prima di dormire penso alla mia famiglia».

A cosa in particolare?«Rivedo i loro volti e penso che stanno bene, che hanno tutto ciò di cui possono avere bisogno e che sono felici. Ci credi se ti dico che quasi ogni sera mi addormento con il sorriso?».

Sì, ci credo. Buona fortuna, Arturo.«Suerte, Elisa».

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