Siamo indiani, facciamo gli infermieri

Jordan ha i baffi neri, lo sguardo penetrante e un’espressione seria che quasi mette a disagio. Ankita invece ha l’aria dolce, con il viso ovale, le sopracciglia sottili e le mani che accompagnano delicatamente le sue parole. Sembrano il giorno e la notte. In realtà i nostri protagonisti sono due colleghi, due infermieri provenienti dalla stessa città in India, che hanno scelto l’Italia per svolgere quella che considerano la «professione più bella del mondo».Ci hanno raccontato le loro storie con semplicità, creando un’atmosfera confidenziale e piacevole che, sicuramente, i loro pazienti avranno avuto modo di apprezzare.

Buongiorno, avete qualche minuto da dedicarmi?J: «Cosa?».

Vi ho chiesto se avete qualche minuto, vorrei conoscere la vostra storia. È per Il Cittadino.J: «Qualche minuto ce l’avremmo, ma dipende da cosa vuoi sapere».

Se siete d’accordo vi farei qualche domanda sulla vostra vita e i motivi che vi hanno portati qui.J: «Va bene. Chiedi pure».

Come vi chiamate?J: «Io mi chiamo Jordan, ho trentadue anni e vengo dall’India. Lei è Ankita».

Sei indiana anche tu?A: «Sì, veniamo proprio dalla stessa città. Io sono più vecchia, ho trentacinque anni».

Siete marito e moglie?A: «No, assolutamente, ci mancherebbe. Siamo colleghi di lavoro».

Di cosa vi occupate?J: «Facciamo gli infermieri in una casa di riposo del Lodigiano. Da quanto, Ankita? Due anni?».A: «No, guarda che ormai sono tre. Siamo arrivati più di quattro anni fa, quindi si fa presto: lavoriamo dal 2009, sono tre anni».

Cosa vi ha portati qui?J: «Abbiamo due storie diverse, accomunate dal finale».

Allora inizia tu, Jordan.J: «Facevo l’infermiere in un grande ospedale della mia città. Credo di aver voluto svolgere questa professione da sempre. Sai, aiutare la gente che ne ha davvero bisogno è qualcosa di meraviglioso. Le condizioni di lavoro erano abbastanza dure: orari estenuanti, attrezzature scarse, stipendi da miseria. Dovreste fare un salto in un ospedale indiano per capire. Ma non ve lo auguro. Comunque, a casa avevo una moglie e un figlio piccolo e i soldi mi servivano davvero perché ero l’unico in famiglia ad avere uno stipendio. Morale della favola: o cambiavo mestiere – cosa impossibile considerata la mia formazione – o cambiavo Paese. Ho optato per questa seconda possibilità».

Perché l’Italia?J: «Perché conoscevo una ragazza, infermiera anche lei, che ci aveva provato e c’era riuscita. Per diventare infermieri in Italia bisogna ottenere il riconoscimento del titolo di studio e superare un esame, non è tanto facile. Insomma, la mia amica ce l’aveva fatta e poteva darmi una mano con lo studio. Poteva anche aiutarmi ad inserirmi in qualche realtà. E infatti così è stato».

E tu, Ankita?A: «La mia storia ha qualche elemento di contatto con la sua, ma sfumature molto diverse. Anche io facevo l’infermiera nella nostra città, però in un altro ospedale. Anche io credevo moltissimo nella nostra professione e l’ho sempre considerata un’occasione per dare e per ricevere, nel senso che l’incontro con i pazienti porta tanta ricchezza interiore. Ma io non me ne sono andata alla ricerca di uno stipendio migliore, semplicemente perché non ne avevo bisogno. Volevo fare un’esperienza all’estero, ecco tutto. All’epoca non avevo famiglia, se non i miei genitori, quindi non avevo legami né impegni. Conoscevo bene il mio lavoro, o almeno cosa significa essere infermiera in India. La sfida per me era incontrare una cultura diversa, sperimentare la professione in Europa. L’idea dell’Italia è arrivata, come per Jordan, grazie a un’amica: la stessa che ha portato qui lui. È stato a quel punto che le nostre strade si sono incrociate».

Interessante. Ma alla fine hai deciso di restare qui?A: «Quella che all’inizio sembrava una semplice avventure si è rivelata un’esperienza molto affascinante. In Casa di riposo mi sono trovata benissimo sia con gli ospiti che i colleghi. Anche lo stipendio mi è sembrato interessante. Per me fare l’infermiera qui o in India era lo stesso: io “sono” un’infermiera. A cambiare sono il contesto – qui è molto più “facilitante” – e il riconoscimento economico, decisamente più convincente di quello indiano. In sostanza, non ho trovato un buon motivo per tornarmene a casa. Se penso poi a tutta la fatica per iniziare».

A cosa ti riferisci?A: «Alla lingua. Qui l’inglese è praticamente sconosciuto e all’inizio comunicare era un’impresa. Ho dovuto ricominciare da zero, per intendersi con il libricino di grammatica e la mia amica che mi dava lezioni».J: «Non parliamo poi dello scrivere, io ancora adesso faccio fatica. È tutto diverso, non ci sono parole, espressioni, simboli a cui “ancorarsi” per ricordare. Ricordo di aver passato un brutto periodo. Credevo che non sarei mai riuscito a superare l’esame, invece».

Eccoti qui.J: «Esattamente, eccomi qui. E il bello è che mi piace».

Fa piacere sentire delle persone così motivate.A: «Noi siamo degli immigrati di serie A. Intendo dire che siamo fortunati. So che molte persone lasciano il proprio paese per trovare i cosiddetti lavoretti, quelli che nessuno vuole fare. Altre fanno le badanti all’infinito, improvvisandosi nelle case delle famiglie che seguono. Noi, invece, svolgiamo il nostro lavoro, quello per cui abbiamo studiato ben prima che anche il solo pensiero di lasciare la patria facesse capolino nella nostra mente». J: «Mi piacerebbe chiedere alle persone che stanno passando adesso per strada quante di loro svolgono il lavoro che vorrebbero svolgere. Credo pochissime».

Lo credo anch’io.A: «Capisci perché siamo di serie A? Abbiamo avuto la fortuna di fare quel che ci piace».

È vero. Verissimo. Dove vivete?J: «Io in un piccolo comune del Lodigiano con due connazionali. Avrei voluto chiedere il ricongiungimento con mia moglie, ma i tempi sono duri. Qui la vita costa molto, quindi preferisco far vivere tutti da nababbi dall’altra parte del mondo piuttosto che portarli in Italia a fare la fame. Il mio Paese può dare speranze a mio figlio, basta che studi e che si dia da fare».

Tua moglie è d’accordo?J: «Non proprio: lei preferirebbe riunire la famiglia. Ma io non sono nemmeno certo che si troverebbe bene. Questo non è un altro continente, è un altro pianeta».

E tu, Ankita?A: «Io vivo con la mia amica, quella che mi ha fatto conoscere Jordan una mattina d’autunno dicendomi: “Studia con questo musone. Vedrete che in due riuscite a passarlo, l’esame”».

Jordan è un musone?A: «La prima impressione è quella. Non vedi come è serio? E sorridi un po’, dai».

Colpa dei baffi?A: «Ha l’espressione di uno che deve salvare il mondo. Diciamo concentrata. All’inizio mi sentivo in imbarazzo. Poi con il tempo ho scoperto che è proprio un tipo affabile. E un bravissimo compagno di studi, oltre che di lavoro».

Quanti complimenti.J: «Ci siamo aiutati molto in tutto questo tempo, ci siamo sostenuti quando la nostalgia è venuta a trovarci. Troppo di frequente, in questi ultimi anni».

Da quanto non tornate a casa?A: «Da quattro anni. Vorremmo rientrare la prossima estate, magari per tre settimane. Chissà».J: «Io l’ho promesso ai miei figli. O vado io in India, o vengono loro a trovarmi. Ovviamente paga papà. Avrei voglia di un po’ di aria di casa».A: «Anche solo indossare i nostri vestiti tradizionali».J: «Qui abbiamo fatto un grande sforzo, ci siamo adattati, ma ogni tanto io sento il bisogno di essere quello di prima».

Italia per sempre?A: «Per me sì, decisamente».J: «Per me no. Almeno, non credo. Vorrei invecchiare a casa mia. Ma ho davanti parecchio tempo. Chissà? Potrei anche cambiare idea».

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