Rubriche/StorieImmigrati
Mercoledì 18 Maggio 2011
«Senti, mi compri un accendino?»
Stephan viene dal Senegal e aspetta i clienti al parcheggio dell’ospedale
Stephan aspetta i suoi clienti nel parcheggio dell’Ospedale Maggiore di Lodi, e ogni volta è una lotta. «Io non voglio la carità, sono qui per vendere»: è questa una delle frasi in italiano che conosce meglio e che ripete convinto, insistendo fino a ottenere un risultato. Se non altro, lavorando sui sensi di colpa e mettendoci un po’ di simpatia, Stephan raggiunge i suoi obiettivi. È difficile sfuggirgli, che si tratti di un pacco di calzini dalla qualità decisamente discutibile o di un accendino king size, che più che per accendersi una sigaretta potrebbe servire per un falò.
L’abbiamo intervistato con parecchie difficoltà, soprattutto per via dell’italiano, che Stephan conosce in modo approssimativo.
Il protagonista delle storie di immigrati di questa settimana ha un regolare permesso di soggiorno e una “licenza” per vendere i suoi oggetti. Ma non è arduo intuire quanto gli accendini e gli incensi si rivelino insufficienti per il sostentamento suo, qui in Italia, e di sua moglie, in Senegal con i due figli.
Che Stephan non guadagni abbastanza è un dato di fatto, comprensibile anche senza rivolgergli la parola. Che la sua vita trascorra giorno dopo giorno priva delle più piccole soddisfazioni è però tristemente sconfortante. Stephan è giovane, ha ventinove anni, ma non è speranzoso come un tempo. Giunto in Italia per inseguire un sogno che ha coinvolto anche il fratello, si è ritrovato sommerso dalle difficoltà. Ora, cinque anni dopo il suo arrivo, non ha dubbi: quest’estate tornerà a casa. E quel che sarà di lui e della sua famiglia in questo momento non è dato saperlo.
Ciao Stephan, ci racconteresti la tua storia?
«Te la racconto anche, ma prima compra qualcosa».
Non mi serve niente. Se vuoi ti lascio un paio di euro.
«No, non sono qui per fare l’elemosina, sono qui per vendere. Dai, compra qualcosa».
Ma non mi serve niente, poi mi ritrovo la casa piena di oggetti inutili. Preferisco darti qualche spicciolo.
«Ti garantisco che qualcosa di utile nel mio sacco lo trovi. Vuoi cinque accendini? Dei calzini? Questi incensi sono buonissimi, ci profumi la casa e non ingombrano».
No, davvero. Ti lascio tre euro.
«Per tre euro ti do un accendino. Vedi? È grandissimo e ha anche la pila».
Affare fatto, anche se non fumo. Ci accenderò le candele. Adesso possiamo iniziare?
«Va bene. Ma guarda che dico davvero, io non sono qui per chiedere la carità. Capita che qualcuno mi lasci cinquanta centesimi o un euro, ma per me ha poco senso. Io ho una licenza per vendere i miei prodotti e ci tengo al mio lavoro. È un modo per conservare la dignità».
Posso capirti, ma ti sarai accorto anche tu che siete tantissimi, dislocati praticamente in ogni angolo della città. Se tutti comprassimo ogni volta non sarebbe proprio il massimo.
«Da una parte ti rispondo che capisco benissimo, dall’altra la mia vita è questa e francamente ho perso le speranze di riuscire a fare qualcos’altro. All’inizio, fin dal primo giorno da mercante, credevo che questo sarebbe stato un lavoro temporaneo. Poi, lentamente, ho realizzato che di porte aperte per me non ce ne sono. Sognavo un lavoro in fabbrica o in cascina, ma niente, non c’è mai stato verso».
Perché secondo te?
«Perché se non conosci nessuno le porte più che chiuse sono blindate. E poi perché uno dovrebbe assumere me e non l’amico di un dipendente fidato, per esempio? Credevo, o meglio speravo, che portando il curriculum alle agenzie di lavoro interinale un’offerta presto o tardi sarebbe saltata fuori. Le ho girate quasi tutte, a Lodi come a Milano, ma niente. Quindi eccomi qui con la mia merce. Ci sono giorni in cui va bene e ci pago il posto letto, ma ci sono anche giorni in cui va male; in quei casi mi compro un panino e una birra e vado a dormire, sperando nell’indomani. La mia vita è questa».
Vivi a Lodi?
«No, vivo a Milano, con alcuni colleghi. Nel mio appartamento siamo in sette, in quello di mio fratello, un po’ più piccolo, in cinque. Per venire al lavoro prendiamo il treno. La mattina è sempre il momento migliore, il pomeriggio invece passa in sordina. Non ci fermiamo spesso oltre l’una, almeno non in questo parcheggio».
Perché sei partito?
«Per i soldi, per la speranza di trovare un’esistenza più dignitosa qui. In Senegal me la passavo decisamente male. A dire il vero ero in buona compagnia, considerato che tutti i miei familiari e gli amici facevano fatica come me a tirare a campare. Il problema da noi è duplice: il lavoro e lo stipendio. Da un lato impazzisci per trovare un impiego, soprattutto se come me non hai avuto modo di studiare come si deve, almeno fino a diciotto anni; dall’altro lato quando finalmente il lavoro ce l’hai, guadagni pochissimo, e appena resti disoccupato è la fine perché non hai potuto mettere da parte alcunché».
Disoccupato?
«Disoccupato non è preciso: magari una persona ti chiama per un lavoro, che so?, tinteggiare l’officina, e tu ti attivi. Poi, alla fine, prima di trovare un’altra attività passano settimane. Con quello che hai guadagnato tinteggiando compri pranzo e cena per la tua famiglia, paghi le spese e puff!, non ti resta in tasca niente. Capisci perché uno parte?».
Chi hai lasciato in Senegal?
«Mia moglie e i miei due figli. Ci siamo sposati giovani, io avevo diciannove anni, lei diciotto. Ho lasciato anche i miei genitori e mia sorella. Mio fratello maggiore, invece, è qui con me».
Anche lui è nel tuo settore?
«Sono nel mio settore tutti i miei amici e ovviamente anche mio fratello. Siamo partiti insieme, abbiamo affrontato uniti la sfida dell’emigrazione e fra poco ci separeremo: lui continua questa avventura, io mi fermo e torno a casa. Basta, non ne posso più».
Sei riuscito a spedire dei soldi a tua moglie?
«Pochi a dire il vero, ma persino quel poco da noi fa la differenza. Lei sembra sempre contenta quando la sento al telefono, anche se è da cinque anni che non ci vediamo. Dice che i bambini stanno crescendo bene, che sono felici e che non vedono l’ora di riabbracciarmi. Secondo me non mi riconosceranno. È normale, quando stai tanto lontano dalla tua terra. Peccato, perché non mi sono mai veramente abituato alla vita qui».
Invece a quanto pare tuo fratello ha apprezzato l’Italia.
«Mio fratello non ha nessuno ad aspettarlo dall’altra parte del mondo. Quello che guadagna con il suo lavoro gli basta per vivere e lui si accontenta. Non pretende molto dalla vita. A dire il vero nemmeno io, ma siamo sempre stati diversi noi due. Per farti un esempio, lui non si offende se riceve la “mancia”, anzi pensa “Meglio, una fatica in meno”. Io invece come avrai avuto modo di notare insisto, perché preferisco chiudere un affare piuttosto che passare per quello che mendica. Puoi aspettarmi un attimo per favore? È tornata una signora che mi ha promesso di comprare qualcosa».
Sei riuscito a piazzare i tuoi prodotti anche a lei?
«Sì, due strofinacci. Dove eravamo? Sì, al lavoro. Non voglio andare avanti così per sempre, quindi mollo il colpo».
Hai resistito per cinque anni.
«Fin troppo. Ma sai cosa mi teneva qui? I racconti dei conoscenti in patria, che con un impiego a tempo indeterminato sono riusciti a cambiare la loro vita. Qualcuno si è fermato in Italia per sempre, altri hanno messo da parte la cifra ritenuta soddisfacente e sono tornati in Senegal. Confidavo nella fortuna, adesso meno. C’è crisi, il lavoro scarseggia e i primi a risentirne siamo forse noi».
Cosa farai in Senegal?
«Sai che sinceramente non ne ho idea? Ma cosa faccio qui? E cosa sarà di me se i soldi che ho messo da parte per il viaggio di ritorno finiscono? Me ne resto imprigionato in Italia? Nossignore, non fa per me. In questo momento posso partire, l’anno prossimo non so, quindi quest’estate faccio le valigie e torno dalla mia famiglia. L’unica cosa che mi dispiace è come la prenderanno gli altri».
Chi?
«Amici e conoscenti. Mi vedranno come un perdente, uno che ha fallito. “Se ne è tornato sconfitto e deluso”, diranno. Non mi importa, tirerò dritto e farò finta di niente. Almeno finalmente sarò a casa mia, quel posto meraviglioso che non vedo da troppo tempo».
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