«Non tornerò in India, qui sto bene»

«Ricordo il mio stupore davanti al frigorifero pieno di cibo del mio amico»

Il protagonista delle storie di immigrati di questa settimana ha un turbante arancio sulla testa, i baffi neri, la pelle scura e un accento che rende veramente difficile comprendere ciò che dice; ma si chiama Beppe. O, meglio, Beppe è il nome che tutti gli attribuiscono, trovando impronunciabile l’alternativa originale. Per noi, invece, sarà Joseph: gli piace di più.Nome a parte, il nostro protagonista è un indiano di trentanove anni, che sorride poco e ha sempre l’aria concentrata, come se volesse ponderare con cura ogni singola parola. L’espressione quasi minacciosa del suo viso stona terribilmente quando dice: «Sono felice». Però, non si sa perché, guardandolo negli occhi non si stenta a credergli, tanto è convincente e penetrante il suo sguardo. Joseph ha lasciato tutto il suo mondo per costruirsene uno affine qua, a migliaia di chilometri da casa. Da agricoltore è diventato mungitore, la sua famiglia si è allargata, ma ciò che davvero fa la differenza sono i soldi che ha in tasca. «Non volevo essere un altro uomo; semplicemente, avevo bisogno di più denaro». Missione compiuta.

Buongiorno, ci racconti la tua storia?«Te la racconterei volentieri, ma il mio italiano è pessimo».

Parli inglese?«Certo, sono indiano».

Allora in qualche modo ci capiremo. Che ne dici?«Va bene. Chiamami Joseph. Il mio vero nome è un po’ diverso, ma a me piace Joseph. Anche Beppe non mi dispiace; il mio capo mi chiama così, perché Joseph non riesce a ricordarselo e allora, sentendo lui, alla fine tutti mi chiamano Beppe. Io però preferisco Joseph».

Vada per Joseph. Che lavoro fai?«Nella prima parte della mia vita sono stato agricoltore, ora faccio il mungitore. Sono comunque a contatto con gli animali e la vita; insomma, è rimasto un filo rosso che mi tiene unito a ciò che ero prima. Sono felice».

Perché? Voglio dire, sei felice perché è rimasto questo legame con il tuo passato?«Esattamente. Quando sono partito avevo paura di perdere il contatto con la mia vita, di diventare qualcun altro e non riconoscermi più. Cambiare contesto, cultura e ambiente significa spesso cambiare il proprio modo di essere. O almeno questo era ciò che temevo. E invece non è andata così. Qui io sono sempre Joseph, con la sua terra e oggi anche le sue mucche. Certo, non sono propriamente mie, ma sono io ad occuparmene, quindi un po’ mi appartengono. E io sono contento di essere sempre quello di un tempo».

È curioso questo punto di vista, insolito.«Non sono partito per cambiare vita, ma per vivere meglio il tempo che ho a disposizione. In altre parole, mi servivano solo più soldi, non una vita diversa. E qui credo proprio di essere riuscito nell’intento».

Il tuo lavoro da agricoltore non era sufficiente per te e per la tua famiglia?«Certo che no, non lo era proprio. Quando il tempo era clemente, direi propizio, ce la facevamo anche, ma bastava un piccolo intoppo che io e la mia famiglia non avevamo da mangiare. All’epoca avevo due figli, e mantenerli era dura».

E oggi?«Oggi ne ho tre, mantenerli è sempre dura, ma in modo diverso».

Spiegaci.«Quando non ce la facevo in India il problema era che non avevamo i soldi nemmeno per comprare la cena o una pastiglia per il mal di testa. Io di pastiglie per il mal di testa non ne ho mai usate, ma so che qui vanno di moda. Comunque, non avevamo il minimo indispensabile. Qui la fatica è un’altra».

Quale?«Comprare i vestiti, i libri, i giocattoli per far sentire i miei figli come tutti gli altri. Questo ha un costo, ma i miei ragazzi sono bravi: si ricordano da dove vengono e le difficoltà che i nostri connazionali vivono, quindi sanno accontentarsi. Sono io, spesso anche mia moglie, a volere per loro tutto ciò che hanno gli altri ragazzi; mi sembra giusto così».

Ce la fai con il tuo lavoro?«Certo, altrimenti non sarei qui».

Sei il solo della tua famiglia a trovarti in Italia?«Eravamo tutti messi abbastanza male, sia io che i miei fratelli, ma solo in due abbiamo avuto il coraggio – o la sventatezza – di emigrare e ricominciare tutto daccapo, ritornando all’anno zero delle nostre vite. Io per primo, mio fratello invece ha seguito le mie orme solo un paio d’anni dopo, quando il “terreno” era ormai pronto per il suo arrivo. Lui, a differenza mia, non ha chiesto il ricongiungimento con la moglie e i figli: invia loro del denaro ogni mese, ripetendo che preferisce che siano felici in India. Per quanto mi riguarda, sono di tutt’altro avviso».

Come si sono trovati i tuoi figli qui?«All’inizio è stata una tragedia, almeno per il più grande: aveva tredici anni ed era inferocito all’idea di dover lasciare la scuola e gli amici. Cercava di non darlo troppo a vedere, ma soffriva. Adesso ogni tanto mi dice: “Papà, sono contento che tu mi abbia portato qui”. Questo mi fa tirare un sospiro di sollievo. Anche il secondo si trova bene: a scuola è in gamba, si è integrato perfettamente e non mi ha mai dato alcun problema. Il piccolino invece è nato qui, quindi praticamente è italiano».

E tua moglie?«Ah, lei sarebbe rimasta volentieri in India, su questo non c’è dubbio. Qui in Italia non ha molte occasioni per svagarsi: resta in casa tutto il giorno, si occupa dei ragazzi e basta. Nei fine settimana andiamo a fare la spesa, tutto qui. In India invece aveva la sua famiglia, il mercato, le sue conoscenze. Non è sempre facile per lei, anche perché non ha la patente e noi viviamo in piena campagna. Prima o poi si abituerà, almeno spero».

Non potrebbe prendere la patente?«Una donna alla guida? Secondo me, mia moglie non ne sarebbe capace».

Perché di tanti posti nel mondo hai scelto proprio l’Italia e il Lodigiano?«Perché c’era stato il fratello di un mio vicino di casa e perché tutti mi dicevano che l’Italia è un Paese accogliente, dove il lavoro non rappresenta un problema. Volevo andare sul sicuro, e così è stato».

Come hai fatto a trovare il lavoro in cascina?«Sempre grazie al fratello del mio vicino: quando sono arrivato si trovava in Italia da sei anni e si era sistemato: aveva un posto fisso, la casa e l’auto. Non gli mancava nulla. Ricordo il mio stupore davanti al suo frigorifero pieno: mi si è spalancata la bocca. Poi a dire il vero non è più stato pieno come quella prima volta, ma mi sa che nella mia vita non avevo mai visto tanto cibo tutto insieme in una stanza sola. Comunque, il mio amico, perché ormai di amico trattasi, un amico fraterno, dicevo, il mio amico mi ha ospitato per due anni, mettendomi anche in contatto con una cascina in cui cercavano un mungitore. Poi ho camminato con le mie gambe, ed eccomi qui. Come ti accennavo, sono felice, mi sento appagato, non mi manca niente».

Tornerai in India?

«Intendi dire per viverci?».

Perché no?«Perché no, non ci torno, scordatelo. In India sta bene chi sta bene, qui stanno bene un po’ tutti, mi sembra diverso. Anche se dai discorsi della gente sento che a quanto pare la crisi sta lasciando il segno praticamente ovunque, credimi se ti dico che per me qui va benone: ho il mio lavoro, la mia casa, la mia terra e la mia famiglia. Non posso chiedere niente di più».

Non tornerai nemmeno per le vacanze?«Per le vacanze sì, ci mancherebbe. In patria ci sono mia mamma, i miei tre fratelli e poi tutta la famiglia di mia moglie. I miei figli devono conoscere i nonni e devono essere portatori della nostra cultura, come della vostra. Ma indietro non ci torno: qui sto bene e qui resto, finché campo».

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