Natalia, dal Perù a un grande ospedale

Da noi c’è una grande richiesta di infermiere: è stata subito assunta

Per capire che Natalia è straniera bisogna rivolgerle la parola: è l’accento vagamente spagnolo a tradirla. Per il resto – look, lineamenti, modo di fare e atteggiamenti – è a tutti gli effetti un’italiana. D’altronde non stupisce: Natalia è arrivata nel sud Milanese dieci anni fa e lì vuole restare, probabilmente per sempre.La sua vita è tutta incentrata sul lavoro, a cui dedica anima e corpo. Un lavoro che aveva scelto già prima di partire e che qui, dall’altra parte del mondo, le ha permesso di fare carriera: «Lavoro in un ospedale del sud Milanese come infermiera e da poco ho iniziato anche a occuparmi della formazione. Ho bisogno di fare pratica, perché insegnare in italiano non è sempre facile, ma devo dire che mi piace ciò che faccio, davvero. Gli studenti ti portano ad affrontare i problemi da un punto di vista diverso, a metterti in discussione, e questo è proprio ciò che serve per crescere».Natalia, trentaquattro anni, non ha paura di confrontarsi, di raccontarsi e di guardare al futuro. È una donna solare che ha saputo prendere in mano le redini della sua vita e guidarla verso quelli che lei definisce i “suoi grandi obiettivi”: la serenità e il piacere di fare ciò che si ama.

Buongiorno Natalia, sento dal tuo accento che non sei italiana. Ma solo dall’accento a dire il vero, perché conosci molto bene la nostra lingua. Saresti disposta a raccontarci la tua storia?

«Più che volentieri. Sai che con l’accento non riesco a farci niente? Ormai conosco l’italiano molto bene, anche termini inconsueti, ricercati, ma per l’accento niente, non c’è corso di lingua che tenga».

Lo dicono in tanti che per un sudamericano è più difficile. Tu di dove sei?

«Sono di Lima, Perù. Ma ormai la mia casa è qui, in una bella cittadina del sud Milanese dove vivo e lavoro. Sono arrivata dieci anni fa e da allora ho rimesso piede in Perù solo tre volte».

Chi hai lasciato dall’altra parte dell’oceano?

«Mio fratello e mio padre. Mia mamma non c’è più da molti anni, mia sorella minore invece si trova qui con me. È un’infermiera anche lei, lavora in un grande ospedale milanese. Siamo diverse, noi due: lei è più orientata alla famiglia e alla tranquillità, mentre io preferisco la carriera. Mi piace il mio lavoro, mi piace crescere professionalmente».

Perché sei partita?

«Per il gusto di fare un’esperienza professionale all’estero. Dieci anni fa ero single, da poco diplomata ed entusiasta della vita. Lavoravo come infermiera a Lima e sentivo di avere il mondo fra le mani. Hai presente quando sei giovane e tutto sembra possibile, anche le imprese più ardue?».

Eccome.

«Ecco, io avevo proprio quella sensazione. Altre mie colleghe avevano fatto un’esperienza simile ed erano rientrate in patria al settimo cielo: chi per lo stipendio, chi per il confronto con un’altra cultura, chi per il bel bagaglio di esperienze, professionali e personali, portate a casa. Mi sembrava un’idea geniale quella di mettermi in gioco qui, in un angolo di mondo sconosciuto. Certo, iniziare sarebbe stato difficile, quello lo sapevo per certo».

Ma valeva la pena tentare.

«Esattamente. Così un giorno mi sono detta: “Natalia, se non provi ora non proverai mai più. Per restare a casa hai tutta la vita, perché non provarci?”. Le amiche mi sostenevano, la famiglia invece sembrava perplessa, soprattutto mia sorella».

Perché?

«Perché siamo sempre state molto unite io e lei, e la mia partenza la destabilizzava. All’epoca lei stava ancora studiando per diventare infermiera, sentiva di avere bisogno di me. Dico “sentiva” perché in realtà di me non ha mai avuto bisogno: è una ragazza molto in gamba, autonoma e coscienziosa. Comunque, tornando a me, spinta dall’entusiasmo mi sono organizzata al meglio e alla fine il viaggio ha avuto inizio».

Destinazione?

«Milano, perché buona parte delle amiche mi avevano spiegato chiaramente che a Milano c’è una grande richiesta di infermieri e che il lavoro è praticamente assicurato: basta superare l’esame, iscriversi all’Albo e il gioco è fatto».

Tutto così facile?

«No, cara, come sempre tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare».

Conosci anche i proverbi italiani?

«Qualcuno: lavorando a stretto contatto con la gente di modi di dire ne senti parecchi. Il mare in mezzo però c’era davvero, e bello grande: il tanto temuto esame. Ho dovuto studiare la vostra lingua approfonditamente, non solo per presentarmi e chiedere un panino come si fa a scuola, ma per gestire un paziente, con tutti i termini tecnici che ci stanno intorno. E poi ho dovuto approfondire anche la normativa relativa alla professione. Ma che superato l’esame il lavoro fosse a portata di mano, quello era verissimo. Ho iniziato come infermiera, poi con il tempo tutti si sono accorti di quanto ami la mia professione».

Come hai fatto per la casa e le bollette all’inizio?

«Prima di partire mi sono messa in contatto con la zia di una mia amica che era disposta a darmi una mano: abitava in un appartamento con una stanza libera, che mi ha affittato. Non ha avuto dubbi o incertezze: “Natalia, finché non sarai un’infermiera non mi darai un soldo. Ci penseremo dopo, quando avrai un lavoro”. E così è stato. Per otto mesi circa sono rimasta da lei gratuitamente: per sdebitarmi la aiutavo con i mestieri, la cucina e le commissioni. Successivamente le ho pagato ogni mese la camera, fino all’arrivo di mia sorella».

È arrivata su tuo consiglio?

«Diceva che non le piaceva stare in Perù senza di me, che non si divertiva più come un tempo e si sentiva triste. Io in cuor mio già sapevo che l’Italia sarebbe stata la mia casa. Fin dal primo giorno mi sono sentita a mio agio, compiaciuta per la scelta “intelligente” e soddisfatta per i risultati. Perché tornare indietro? Con mio padre e mio fratello non ho mai avuto un gran rapporto. Insomma, del Perù a parte mia sorella mi mancava e mi manca poco o niente».

È stato facile anche per tua sorella adattarsi alla nuova vita?

«Abbastanza, ma lei fin da subito ha sentito la necessità di costruire relazioni quasi esclusivamente con i connazionali. Anche in questo è diversa da me: io sono entrata in Italia con l’idea di confrontarmi il più possibile con voi, mentre lei da un certo punto di vista è più restia. Forse perché non sarebbe mai partita se io fossi rimasta a Lima. Come dire?, mia sorella è meno “cittadina del mondo” e più peruviana. Non è una critica».

E tu, “cittadina del mondo”, non torni mai a casa?

«Come ti accennavo sono rientrata tre volte soltanto in dieci anni. È sempre magico riassaporare l’atmosfera di una vita, ma un paio di settimane per me sono più che sufficienti. Poi il mio desiderio è di rimettere tutte le mie cose nelle valigie e tornare qui, nel Paese in cui ho deciso di vivere. Non posso stare lontana troppo a lungo dal mio lavoro. Ho appena iniziato anche a occuparmi della formazione: non credevo fosse tanto affascinante».

Cosa ti piace della formazione?

«Ho a che fare con gli studenti, con il “cuore pulsante”, il futuro della professione. Incontri persone appassionate che ti trasmettono il loro entusiasmo, o persone indifferenti che devi coinvolgere e motivare. C’è un grande lavoro da fare con loro e su di loro, ma poi tanta fatica viene ripagata. Per essere all’altezza sto approfondendo l’italiano. Sai, quando devo parlare in pubblico, magari tenere una lezione, il rischio di inciampare con la lingua c’è, e io non voglio fare figuracce».

E tua sorella nel frattempo?

«Mia sorella svolge serenamente il suo lavoro e si è anche sposata. Lei ci tiene molto alla famiglia. È inutile che ti dica che si è sposata con un peruviano. Lui vorrebbe prima o poi tornare in patria, lei ovviamente è d’accordo, sente molta nostalgia di casa».

Le vostre strade si separeranno, quindi.

«Elisa, il mondo è più piccolo di quello che sembra. Se anche mia sorella vivrà in Perù saremo sempre vicine. Ci sono legami speciali che nemmeno migliaia di chilometri di distanza o anni di silenzio riescono a logorare. Mia sorelle deve seguire la sua strada, io la mia. So che da qualche parte, prima o poi, si rincontreranno».

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