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Mercoledì 23 Febbraio 2011
Narcisa, una badante... per amica
La dolcezza di carattere la rende davvero “speciale” per le sue assistite
Ci sono persone che ispirano immediatamente fiducia. Sarà lo sguardo, o forse i modi gentili, o il tono di voce pacato, o la dolcezza dei movimenti, chissà?, fatto sta che capita di imbattersi in qualcuno di cui nel giro di pochi istanti si pensa: “Dev’essere proprio una brava persona”. È una questione di pelle, come nel caso di Narcisa.
Questa donna cordiale, vestita con semplicità e preoccupata per il suo italiano impreciso, ha creato nel corso dell’intervista un’atmosfera gradevole, rilassante, schietta come il suo racconto. Non stupisce, quindi, che sia stata scelta come “badante speciale”, qualcosa di insolito, un territorio finora poco esplorato: «Il mio lavoro? Fino a una settimana fa ho tenuto compagnia a una signora che era piuttosto giù di morale. Sai, a volte capita di sentirsi soli. Bene, per due mesi sono stata con lei. Abbiamo pranzato e cenato insieme, chiacchierato delle nostre vite, riso e pianto. E vuoi sapere cosa è successo? Siamo diventate amiche. Lei ora non ha più bisogno di una badante. Si sente meglio, e io le sono comunque vicina».
È questa dolcezza il grande pregio di Narcisa, la sua caratteristica immediatamente percepibile, la forza che le consente di affrontare con serenità la sfida dell’emigrazione.
Buongiorno Narcisa, da dove vieni?
«Vengo dalla Romania».
A dire la verità l’avevo intuito dall’accento...
«Scusami se non parlo molto bene la vostra lingua, è che mi trovo in Italia da un anno soltanto. Ho deciso di lasciare il mio Paese solo un anno fa, quindi non ho avuto modo di studiare prima di partire. Mi dispiace».
Non c’è problema, vedrai che ci capiremo comunque. Perché hai lasciato la Romania?
«Guarda, è molto semplice: devo pagare le bollette e i soldi non bastano. Hai visto quante sono le donne rumene qui alla Casa dell’Accoglienza? Praticamente la metà delle ospiti. E sai quante altre ce ne sono in giro? Il motivo è presto detto: fino a poco tempo fa si sopravviveva anche con i nostri miseri stipendi, adesso invece non c’è più niente da fare».
Perché?
«Piacerebbe anche a me saperlo, sarà la crisi? Non ne ho idea, fatto sta che siamo partite in tante, tantissime. Io non conosco tutti casi, ma il mio sì, e te lo posso illustrare: come ti accennavo fino a due anni fa riuscivamo a stare a galla, con fatica, questo è fuor di dubbio, ma ce la facevamo. Adesso, invece, fra luce, gas e acqua i soldi non bastano. Se paghi le bollette non mangi, quindi chi può tenta la fortuna altrove».
Non avevi un lavoro?
«Prima di restare incinta lavoravo in una ditta che produce tessuti. Poi, con la nascita di mia figlia, sono rimasta a casa a occuparmi della bambina. Da noi è molto frequente che questo accada, perché abbiamo una visione abbastanza tradizionale della famiglia. Quando poi mia figlia è cresciuta – il che poteva significare per me l’inizio di un nuovo lavoro – i problemi sono arrivati da un’altra parte».
Ossia?
«Si è ammalata gravemente mia mamma; quindi è stata la volta di mia sorella, a cui sono state amputate le dita delle mani e il piede a causa del diabete. L’ho seguita fino alla fine. Ora, purtroppo, non c’è più».
Hai aiutato tutti...
«Ho aiutato chi ne ha avuto bisogno, come avrebbe fatto chiunque altro. Comunque, tornando al lavoro, dopo un’assenza tanto prolungata non sono riuscita a trovare un impiego. Quindi, per rendermi utile, ho iniziato a dare una mano a mio marito».
Cosa fa?
«Produce “caramida”. Questa parola non l’ho mai usata qui».
Cosa sarebbe?
«Non so come si traduca in italiano. Posso provare con una descrizione. Mi viene da ridere, sembra un indovinello: ci fai le case, i caminetti, i muri, un po’ tutto. Sono rossi, sono praticamente ovunque».
Mattoni?
«Esatto, mattoni. Li preparavamo in un grande campo vicino a casa, io, lui e alcuni colleghi. Ma in due solo con quel lavoro non era facile andare avanti. Inoltre la produzione è legata al tempo: quando fa troppo freddo, non si batte chiodo. Adesso per esempio so che mio marito è fermo. Questo significa nessuna entrata, solo spese. Capisci perché sono partita? Potrebbe capitare a chiunque, anche a voi: immaginate un bel giorno di non riuscire più a pagare le bollette. Non potete riscaldarvi d’inverno o accendere la luce quando serve. Non esitereste a rimboccarvi le maniche e, se possibile, a trasferirvi altrove. Proprio come ho fatto io».
Tuo marito e tua figlia cosa ne dicono di questa scelta?
«Mio marito mi ripete spesso di tornare a casa, anche perché è passato un anno dal giorno del mio arrivo qui. Ma io sono ferma sulle mie posizioni, altrimenti la mia partenza non avrebbe senso: “Avevamo detto che sarei rimasta finché ne avessimo avuto bisogno. Al massimo torno per le vacanze estive”. Sono un po’ dura, ma non vedo altre strade. Per quanto riguarda mia figlia, invece, è d’accordo, decisamente».
Cosa fa?
«Ha diciotto anni e si è sposata un anno fa. “Mamma sono innamorata, mi sposo”, mi ha detto una sera. Aveva diciassette anni, ci credi? Io, dal canto mio, le ho consigliato di aspettare di avere almeno vent’anni, ma non ha voluto sentire ragioni. Mi dispiace solo che con il marito viva in un’altra città. Comunque, mia figlia non lavora perché, come ti dicevo, in Romania abbiamo una visione tradizionale della famiglia. Quindi, ora più che mai, anche lei gradisce quando ogni tanto riesco a spedirle un po’ di soldi: non sono mai abbastanza».
Perché hai scelto proprio l’Italia?
«Per via di un’amica che mi ha consigliato di trasferirmi in questo bel Paese. Il suggerimento era di mettermi in contatto con le suore della Casa dell’Accoglienza Rosa Gattorno, e così ho fatto. Fin da subito ho avuto un tetto sulla testa, pasti garantiti e nel giro di poco tempo un lavoro. Incredibile, vero? Non è sempre stato facile, ma almeno non mi sono mai sentita sola».
Qual è stato il periodo più duro?
«Non ho dubbi, il periodo in cui ho lavorato in un albergo. Rendere l’idea è difficile, ma ci provo: iniziavamo – parlo al plurale perché oltre a me c’erano altre donne, tutte straniere – alle sei del mattino con la pulizia delle camere. Lavoravamo ininterrottamente a spron battuto fino alle due del pomeriggio. E già l’inizio della giornata era pesantissimo. Poi, dopo due ore di pausa, riprendevamo alle quattro con la pulizia della cucina, avanti fino a mezzanotte. Le pentole erano pesantissime da maneggiare, il lavoro faticoso – anche perché ho cinquantatré anni – e per giunta la paga misera. Ho rinunciato a quel posto non appena mi si è presentato un altro lavoro».
Che lavoro?
«La badante. Ho seguito diverse persone nel corso di quest’anno. Ora mi trovo alla Casa dell’Accoglienza perché una settimana fa ho finito con una signora di meno di sessant’anni».
Era ammalata?
«No, era un po’ giù di morale e aveva bisogno di compagnia, tutto qui. Per me è stato un piacere, dico davvero. Dovevo solo chiacchierare, stare con lei e ogni tanto lavare i piatti. Il risvolto interessante di questa vicenda è che siamo diventate amiche, e adesso ci sentiamo quasi ogni giorno al telefono. La mia amica sta meglio e non ha più bisogno di me dal punto di vista, come dire?, “professionale”, ma io ci sono lo stesso».
Stai cercando un impiego in questo momento?
«Certo che sì. Spero di continuare a fare la badante, anche perché non vedo altre possibilità all’orizzonte. Ho fiducia, vedrai che qualcosa salta fuori prima o poi. E io sarò pronta a cogliere l’occasione».
Per quanto tempo resterai in Italia?
«Non lo so, finché ne avremo bisogno».
Per cosa?
«Per pagare le bollette, per vivere dignitosamente, per mettere a posto una stanza di casa mia. Sono partita con questo obiettivo, niente di speciale, niente sogni ambiziosi. Rivoglio una vita normale, in cui non si debba sempre tirare la cinghia. Mi sono chiesta quanto tempo mi occorrerà, ma non ne ho la più pallida idea. Un anno? Due? Magari quattro? Non lo so. So solo che tornerò a casa per le vacanze estive e rivedrò mia figlia e mio marito. Bisogna portare pazienza e andare avanti. Sperare di farcela e impegnarsi».
Niente sogni nel cassetto, quindi?
«Un lavoro e la tranquillità, nulla di più».
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