Mohamed, un angolo di Marocco

Abita a Lodi con la moglie e i tre figli, fa il muratore e si è comprato la casa

Sentire la storia di Mohamed raccontata dalla sua vive voce, con i suoi modi ironici ed eccentrici, è stata un’esperienza divertente. Mohamed, piccolo di statura e di corporatura, gli occhi intensi e il sorriso coinvolgente, parla per metafore, riuscendo a farci capire quanto a volte una buona dose di intraprendenza, ilarità e spirito di adattamento possano trasformare drasticamente l’esistenza di una persona.Cosa sarebbe di quest’uomo di trentasei anni oggi se un giorno, davanti ai clienti europei di un albergo marocchino, non fosse scattata in lui la scintilla che ha acceso il desiderio di una vita migliore? Nessuno lo sa, nemmeno Mohamed, che si pone questa domanda quasi ogni giorni.Quel che è certo è che non lo avremmo incontrato in Italia, a Lodi per la precisione, dove vive con la moglie e i tre figli, in una casa tutta sua che non esita a descrivere, con un pizzico di orgoglio, come «un angolo di Marocco».

Buongiorno Mohamed, che ne dici di raccontarci la tua storia

«Dico che non mi dispiacerebbe, tanto ho qualche minuto da passare qui, sto aspettando un amico. La mia storia? È la storia di molti altri marocchini come me che si sono lasciati tutto alle spalle, ormai più di dieci anni fa, per costruirsi una vita in Italia. Quando sono partito non avevo idea di quanto mi sarei fermato qui. Più di dieci anni: ne è passato di tempo e ne sono successe di cose».

Tipo?

«Mi sono sposato, ho avuto tre figli, due maschi e una femmina, mia moglie si è trasferita qui, mi sono comprato una casa, ti basta? Insomma, la mia vita è cambiata decisamente. Forse sarebbe accaduto tutto lo stesso, anche se fossi rimasto in Marocco. Ma spessissimo il dubbio mi sorge: chi sarebbe Mohamed oggi se quel giorno non avesse pensato: “Dai, buttati. Trattieni il respiro e fai un salto”?».

In che senso?

«Nel senso che in Marocco non me la passavo “malissimo”. Lavoravo in un albergo come tuttofare, avevo quindi un posto fisso e uno stipendio, che confrontandolo con quello italiano non è una miseria, di più. Ma credo che tutto sommato avrei potuto resistere, intendo dire sopravvivere, dalle mie parti».

Allora perché sei partito?

«Perché tutti quei turisti a loro insaputa mi “sbattevano in faccia” la loro ricchezza. Attenzione, non lavoravo in un albergo cinque stelle super lusso, ma in un normalissimo tre stelle. Ma già le differenze erano epocali. Orologi, abiti, gioielli, tutto faceva trasparire quanto in Europa si vivesse meglio, fra ricchezze e agi. Sembra una fiaba, vero? Me ne sono accorto anche io che la realtà è ben diversa, ma credimi se ti dico che qui si sta decisamente meglio che da noi. Non a caso recentemente la gente è scesa in piazza».

Non ne potevate più.

«Non ne potevamo più da parecchio tempo, ormai. Tornando a me, sognavo un mondo che in Marocco non potevo avere. Avevo venticinque anni, ero single e partire non mi spaventava, anzi. Così, di punto in bianco un giorno mi sono detto: “Buttati, non hai nulla da perdere”. Per me emigrare è stato un po’ come fare un salto nel vuoto. Sei su una roccia, ti dai lo slancio e inizi a cadere. Non sai cosa ci sarà sotto: se uno scoglio o l’acqua fresca, avvolgente. Non dipende da te, almeno non completamente».

Nel tuo caso cosa c’è stato?

«Acqua bassa, perché mi sono incagliato nella sabbia, soprattutto all’inizio. Sono arrivato a Milano con un volo aereo che ha rappresentato l’unico investimento sensato della mia vita. Avevo poche lire in una tasca, giusto per passare qualche notte in albergo e nel frattempo cercare una soluzione. Nell’altra tasca avevo invece l’indirizzo di uno zio che conoscevo appena, emigrato cinque anni prima. Era l’unico aggancio disponibile per l’Europa: il resto della mia famiglia è ancora in Marocco. Comunque, all’arrivo decido di andare a dormire in un alberghetto vicino alla stazione Centrale, l’indomani sono al telefono».

E lo zio?

«Sembrava gentile con il suo “Vieni a casa mia, ti aiuto io”. In realtà nel giro di poche settimane era chiaro quanto volesse “incastrarmi”. Mi proponeva la cameretta del suo appartamento a una cifra insensata, manco dormissi al Four Season – se c’è ancora – e con i suoi modi scontrosi aveva sempre da ridire: sugli orari, sul lavoro, sulle persone che frequentavo. La sua era una polemica costante, perché sentiva di dovermi “educare come un padre”. Io invece in quel momento avevo bisogno di muovermi liberamente, visto che stavo costruendo il mio futuro».

Di cosa ti occupavi?

«Davo una mano a un conoscente che aveva un negozietto di prodotti tipici marocchini. Un lavoro mal pagato, decisamente saltuario, ma che per iniziare andava più che bene, visto che mi permetteva di conoscere gente».

Per poi trovare qualcos’altro, giusto?

«Brava. Vedi che ci vuole poco per capire? Mi zio invece non voleva sentire ragioni. “Piuttosto stai a casa – diceva – è una questione di principio”».

Lui di cosa si occupava?

«Faceva l’operaio, con un’assunzione a tempo indeterminato. Capirai, dall’alto del suo contratto che problemi poteva avere? Ovviamente sto scherzando, anche se un fondo di verità c’è: lui non accettava compromessi. Ecco, io invece li accettavo, e per dirla tutta mi sono serviti».

Spiegaci.

«Tramite un cliente sono stato messo in contatto con un ragazzo che viveva a Lodi e che lavorava in un cantiere. Cercavano un muratore e io non aspettavo altro. “Vogliono che faccia il muratore? E muratore divento”. In quattro e quattr’otto ero a casa sua con il mio bagaglio e le mie mani pronte per lavorare. Da lì la mi avventura, esattamente un anno dopo l’atterraggio del mio aereo, ha avuto realmente inizio. Il lavoro mi piaceva e non mancava e anche se di fatto risultavo libero professionista – sì, ho la partita iva per fare il muratore, questa è l’Italia – c’era una certa continuità. I soldi entravano e io ero sereno. Nel frattempo in Marocco mi aspettava una bellissima ragazza, che oggi è diventata mia moglie».

Quando avete festeggiato il matrimonio?

«L’estate successiva, la prima volta che sono tornato in Marocco per restarci due mesi. Una festa bellissima, un’emozione grande anche perché il nostro era uno di quei famosi matrimoni combinati, che a voi fanno saltare dalla sedia mentre da noi sono normalissimi. E funzionano anche, visto che otto anni dopo siamo ancora qui felici e contenti e abbiamo tre figli».

Dopo quanto tempo tua moglie ti ha raggiunto?

«Il tempo di preparare i documenti e firmare il mutuo per la nostra casa. Quando è arrivata oltre al bagno c’erano un fornello, il letto, un tavolo e quattro sedie. Adesso, grazie a lei, è la nostra bellissima casa: un angolo di Marocco a Lodi».

Sei contento di essere partito?

«Se me l’avessi chiesto tre anni fa ti avrei detto “Sì mille volte”, adesso sono un po’ meno contento. Ma non perché mi manchi la mia vita in Marocco o non mi senta a casa qui. No, il problema è puramente economico e riguarda questa maledetta crisi, maledetta davvero, che non ci lascia scampo. Io mi impegno, sono in gamba e quindi riesco ancora a lavorare in modo abbastanza continuativo. Ma non sono sereno perché vedo tutti i miei amici che soccombono, uno per uno».

La selezione della specie.

«Brava, la selezione della specie. Ma per quanto andrà avanti? Se continua così prima o poi veniamo selezionati tutti».

Tu vuoi fermarti in Italia per sempre?

«Mia figlia maggiore parla più l’italiano del marocchino, mia moglie si è abituata alla vita qui – anche se le manca un po’ l’atmosfera del souk – e io lavoro in zona. Perché mai dovrei tornare in patria? Per quello ci sono sempre le vacanze».

Grazie Mohamed.

«Grazie a te. E mi raccomando, scrivila bene la mia storia».

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