«Mi hanno rapita da Lhasa, nel Tibet»

Un’italiana ha aiutato Tenzing a fuggire in India. Ora si trova a Lodi

La storia di Tenzing non andrebbe letta, ma ascoltata. Ascoltata dalla sua voce morbida, lieve, profondamente triste. Ascoltata con quelle parole lente, con quel tono che crea un’atmosfera sommessa perfettamente in linea con la sua vita. Quando Tenzing dice: «“I feel very lonely”, mi sento molto sola», più che compassione si prova un senso di solitudine, il suo, lancinante, profondo.

Tenzing non sente la sua famiglia da due anni, ossia da quando le truppe cinesi l’hanno portata via, rapendola, dall’accampamento in cui viveva, nascosta in un angolo sperduto del Tibet. È arrivata in Italia per caso, quasi un miracolo, e non sa nemmeno come ringraziare la persona che l’ha aiutata a partire: «Il suo cellulare è sempre spento. Ho provato a chiamare Silvia per un mese, per dirle grazie. Ma adesso mi viene il dubbio che non sia nemmeno italiana».

Tenzing, oggi ospite della Casa dell’Accoglienza Rosa Gattorno, dove è arrivata domenica, si fermerà in Italia per un anno. Poi, se tutto andrà come deve, tornerà in India con un obiettivo preciso: rimettersi in contatto con le persone che ama.

Magra, magrissima, con i lunghi capelli neri e gli occhi tristi, Tenzing ci ha raccontato la sua vita: «“A hard life”, una vita difficile». Le sue parole lasciano di ghiaccio.

Tenzing, vorremmo conoscere la tua storia. Ce la vuoi raccontare?

«Incomincio dal principio, dalla mia famiglia. Sono tibetana e prima che tutto questo avesse inizio, abitavo con mia mamma, mio papà e mio fratello maggiore, che oggi ha trentuno anni, a Lhasa, la capitale del Tibet. Mio padre era un “freedom fighter”, come dite voi?, un combattente per la libertà, ed era per questo stato schedato dai cinesi. Più volte avevano tentato di ucciderlo».

Davvero?

«Vero, e non era il solo a essere in pericolo: tutti noi correvamo grossi rischi restando nella nostra casa. Così un giorno ci siamo spostati nella foresta, in un villaggio nel mezzo del niente dove, almeno speravamo, le truppe cinesi non sarebbero riuscite a trovarci. Con noi c’erano molte altre famiglie di “freedom fighter”».

Cos’è accaduto poi?

«Un pomeriggio di due anni fa, avevo venticinque anni, vediamo sopraggiungere le truppe cinesi. I nostri uomini erano al pascolo con il bestiame, nell’accampamento restavamo solo noi donne. Nel caos generalizzato, i militari sono riusciti a catturare quattro ragazze».

E tu eri una di loro.

«Esattamente. Sono stata portata via, rapita, e da quel giorno non ho più notizie dei miei cari. Nel nostro villaggio non c’era corrente elettrica, né tanto meno un telefono. Una volta giunta a Lhasa con le altre ragazze, non ho più avuto modo di mettermi in contatto con la mia famiglia. Questo mi rende molto triste».

Immagino. Cosa hai fatto a Lhasa?

«Ci hanno tenute in una stanza per alcuni giorni, poi ci hanno spedite a lavorare, chi nei negozi, chi nei bar, chi in entrambi, impegnata giorno e notte. Si iniziava così, ma tutte sapevamo che le intenzioni poi erano ben altre. Per fortuna io sono scappata prima».

Come?

«Lavoravo in un negozio di souvenir: penne, bandierine, cartoline e mille altri oggetti. Ogni giorno passavano decine di turisti, indifferenti; tutti, tranne una: una signora di cinquant’anni circa di nome Silvia. Ha voluto conoscere la mia storia e ha avuto pietà di me. Da quel giorno lady Silvia è venuta tutti i giorni al negozio. Poi, poco prima di partire mi ha detto: “Ascolta Tenzing, ho parlato con un tibetano che potrebbe aiutarti. Cosa ne dici di andare in India?”. “Ma in India non conosco nessuno”, le ho risposto. “Anche qui, Tenzing. Fidati, non ti lascio sola. Ti aiuterò a ricostruire la tua vita. Anche se resti qui, non avrai modo di vedere la tua famiglia tanto facilmente”. Aveva ragione, così alla fine mi sono lasciata convincere».

Come è stato il viaggio per l’India?

«Eravamo in tredici, a piedi fino alla frontiera che divide il Tibet dal Nepal. Arrivare in Nepal significava “freedom”, la libertà. Poco prima di attraversare la frontiera siamo state caricate su un camion e coperte con dei teli. In pochi minuti, il mostruoso passato era alle spalle: un bus ci attendeva per portarci a Nuova Delhi».

Per fare cosa?

«Per essere libere e cercare una soluzione. Lady Silvia mi ha aiutata in mille modi: mi ha trovato un lavoro in un ristorante tibetano e poi mi ha pagato le lezioni di inglese, perché “Se non parli l’inglese ricominciare è difficile”. Avevo un’insegnante personale tre ore al giorno. Sono anche riuscita a trovare un impiego in un albergo. “Tenzing – mi dice lady Silvia una sera al telefono –, anche se non posso essere lì voglio aiutarti. Ti mando del denaro che dovrai utilizzare per venire in Italia. Ho già preparato l’invito per permetterti di ottenere il visto. Appena puoi, parti”».

È arrivato il denaro?

«Sì, è arrivato, e subito mi sono imbarcata su un volo per Roma. All’arrivo, la triste sorpresa».

Quale?

«Ho incominciato a chiamare il numero di cellulare di lady Silvia, ma era spento. Provavo e riprovavo, ed era sempre spento. Quindi ho chiesto alla gente in aeroporto: “Guarda cara, c’è l’indirizzo ma non la città, potrebbe essere ovunque, a Roma come a Bari”. Non sapevo che fare, ero spaventata».

E cos’hai fatto?

«L’unica cosa che mi è venuta in mente: mi sono seduta in sala d’attesa. Poi, dopo sette ore, due poliziotti mi hanno avvicinata. Non riuscivamo a capirci, spiegavo che lady Silvia non rispondeva, mostravo i documenti, ma noi tibetani non abbiamo il passaporto, dobbiamo presentare una sorta di carta d’identità. Morale della favola, era il caos totale, credevano che volessi prenderli in giro, che fossi arrivata in Italia clandestinamente. Poi, all’improvviso, uno dei due poliziotti decide di telefonare a un’associazione per i rifugiati. Quando mi ha passato il telefono e all’altro capo ho sentito parlare la mia lingua, mi si è aperto il cuore: finalmente avevo modo di spiegarmi. Nel giro di un’ora ero alla sede dell’associazione».

E lady Silvia?

«Dal giorno della mia partenza di lei non ho saputo più nulla. Vorrei ringraziarla, perché è per merito suo che mi trovo qui. Ha fatto tanto per me, e io non riesco a rintracciarla. Mi dispiace, moltissimo».

Hai lavorato a Roma?

«A dire il vero ho lavorato per un po’ a Parma come baby-sitter e donna delle pulizie a tempo pieno. Era veramente faticoso, così un giorno ho chiesto consiglio a un’amica tibetana che mi ha messo in contatto con le suore della Casa dell’Accoglienza Rosa Gattorno. Da domenica mi trovo qui e mi sento decisamente meglio, anche se provo ancora una profonda solitudine: mi manca la mia famiglia, moltissimo».

Tornerai in patria un giorno?

«Non credo, è troppo pericoloso: sanno che sono scappata, quindi mi farebbero sparire nel nulla. No, non tornerò».

Allora che lavoro vorresti fare in Italia?

«Ho pensato che mi piacerebbe fare la badante. Sai, non ho mai conosciuto i miei nonni e credo che prendermi cura degli anziani potrebbe essere un modo per sentirmi in contatto con loro. Non solo: sarebbe una buona occasione per imparare bene la vostra lingua: la famiglia per cui facevo la donna delle pulizie e la baby-sitter era di origine americana, quindi si parlava solo l’inglese. Se vorrò vivere qui, invece, dovrò necessariamente imparare l’italiano».

In Italia per sempre?

«No, non nei miei piani. Fra un anno, quando avrò guadagnato un po’ di soldi, vorrei tornare in India, a Nuova Delhi, per rimettermi in contatto con i miei cari. Ci sono tanti tibetani che scappano e, chissà?, magari qualcuno potrebbe darmi qualche buona notizia».

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