«Ma io volevo fuggire dalla miseria, così ho lasciato il Marocco»

Arrivo a casa di Mohamed, che poi è proprio di fronte all’azienda per cui lavora, in una bella giornata di sole. Sul prato antistante, i tre figli, quindici, sette e quattro anni, stanno giocando a palla. Sembra una scena bucolica, stroncata ogni tanto dal passaggio di un tir.Mohamed è uno degli immigrati degli anni Novanta, uno di quei ragazzi disperati partiti con un sacchetto in mano e tanti sogni in testa.Oggi ha una casa, una moglie, tre figli e la soddisfazione di poter dire: “Ce l’ho fatta”. È un uomo sereno, con una storia che mette allegria.Mohamed, grazie per aver accettato questa intervista. Vedrai che è molto meno complicato di quel che immagini.«Ok, mi fido. Fai pure la prima domanda».Raccontami della tua vita prima di partire.«Dunque, quest’estate compirò quarant’anni, quando sono partito ne avevo venti. Praticamente una vita fa. Adesso che ci penso ho trascorso metà della mia esistenza in Marocco e metà in Italia. A questo punto sono anche un po’ italiano, no? Comunque, la mia famiglia d’origine era numerosa: cinque figli, tutti maschi».Era?«Sì, un mio fratello, il maggiore, non c’è più. È morto lo scorso anno».Mi dispiace.«Anche a me, moltissimo, in particolare perché non ci vedevamo da parecchio tempo».Tu non torni mai in Marocco?«Ogni estate per un mese, quindi altroché se ci torno. Mio fratello però viveva in Spagna».In Spagna?«Sì, perché la famiglia della moglie abita là e i cognati avevano un lavoro pronto per lui nell’edilizia. Io invece qui in Italia avevo poco da offrirgli. È già andata abbastanza bene a me, non potevo chiedere troppo dalla vita».Torniamo a prima di partire.«Sì. Dicevo che ero l’ultimo di una famiglia numerosa, quindi non ho potuto studiare granché. Mia mamma come ovvio non lavorava, mio padre faceva il calzolaio e doveva provvedere con il suo solo stipendio alle esigenze della sua famiglia. A tredici anni ero a lavorare in bottega da lui».Sembra una storia d’altri tempi.«Un po’ lo è, perché parliamo di più di venticinque anni fa, e per il Marocco questi ultimi venticinque anni sono una grande fetta di storia: sono cambiate e stanno cambiando molte cose. Comunque, io lavoravo in bottega, ma avevo un sogno».Quale?«Volevo uscire dalla miseria. Per me la massima rappresentazione del benessere era l’automobile. Io volevo un’automobile, mezzo che in casa mia ovviamente non era mai esistito. Disegnavo automobili, mi costruivo automobili, ritagliavo foto di automobili. Era un chiodo fisso, era la mia immagine del benessere».Poi cosa accade?«Passano gli anni e gli amici d’infanzia partono. Lasciavano la città con uno zainetto e dopo mesi di silenzio tornavano con la valigia piena. Avevo sedici o diciassette anni, e per mei quei ventenni coraggiosi erano quasi degli eroi. Loro sfidavano il mondo e la loro condizione. Capisci? Avevano coraggio, coraggio da vendere. Io volevo essere come loro».E come è andata?«Ho fatto un viaggio che definire “della speranza” è dire poco. Un viaggio lunghissimo, con sbarco al sud dell’Italia e tragitto in treno fino al nord. Una volta a Milano, la meta dei miei connazionali e quindi anche mia, ero all’anno zero. Ero stato bravo, ero arrivato a destinazione, e ora?».E ora?«Ho iniziato con i lavoretti, poi l’edilizia come tanti. Ho imparato un mestiere, mi sono dato da fare, ma la sera ero a pezzi. Ero combattuto: qui i ritmi di vita sono molto frenetici, abituarcisi è difficile. Comunque, ero sempre precario, anche se magari i cantieri restavano aperti per qualche mese. Io volevo qualcosa di diverso. Così un’estate decido di non tornare a casa e mi armo di santa pazienza battendo tutte le ditte della zona, fino a questa».Cosa succede qui?«Il titolare mi dice che gli serve un custode, che dovrei vivere qui giorno e notte, in questa bella casetta che vedi. Prima però dovevo guadagnarmi la sua fiducia».Come?«Ho lavorato parecchi mesi in produzione, poi sono diventato tuttofare affiancando il tuttofare che sarebbe andato in pensione di lì a poco, e solo quando sono stato definitivamente pronto, si è aperta la porta di casa mia. Per me era il massimo. Non ho mai avuto una casa così bella nemmeno in Marocco. Con un lavoro e una casa, potevo finalmente pensare a mettere su famiglia. C’era solo un’ultima tappa da conquistare».Quale?«L’automobile, ovviamente. Volevo realizzare quel sogno, era il simbolo del mio successo».Ma tu avevi la patente?«No, per questo mi ci è voluto quasi un anno: ho fatto la patente e ho continuato a mettere da parte tutti i risparmi per comprare la mia amata auto, una vecchia Tipo che per me era una Ferrari. L’adoravo».Come hai incontrato tua moglie?«Le nostre famiglie erano già d’accordo, fin da quando eravamo piccoli. Certo, uno di noi avrebbe potuto opporsi».Davvero?«Diciamo più o meno, ma non senza problemi».E alla fine siete convolati a nozze.«Esattamente. Lei sapeva che ci saremmo dovuti trasferire qui in Italia. Mi sembrava serena, non particolarmente turbata dall’emigrazione. E infatti oggi è felice. Abbiamo tre bellissimi figli, due femmine e un maschio, e siamo perfettamente soddisfatti della nostra vita».È una bella storia, la tua.«Quando i sogni si realizzano, le storie sono sempre belle. Grazie alla magnanimità del mio datore di lavoro e a questo impiego da custode, ho fatto stare bene tutta la famiglia, anche quella di mia moglie in Marocco. Ero destinato a fare il calzolaio e a patire la miseria, e invece a dispetto di tutto e tutti sono qui».Grazie Mohamed. Sogni per il futuro?«Se sarà possibile, starò qui fino alla pensione. Poi andrà a godermi la vecchiaia in Marocco, nella mia vecchia casa. L’idea mi alletta».

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