Lenny fa tenerezza. È di corporatura minuta, è leggermente incurvato per il freddo e mentre parla si asciuga spesso gli occhi che lacrimano come impazziti. Non è un pianto, il suo; semplicemente il freddo è troppo, per noi e ancor più per Lenny, un senegalese che di bagni di sole ne ha fatti parecchi, mentre di passeggiate sulla neve praticamente nessuna.«Il guaio è che fa freddo e la gente corre in ospedale, non fermandosi nemmeno per guardare la merce» , ha spiegato dalla sua postazione dove aiuta gli automobilisti a parcheggiare, cercando nel contempo di propinare appena scendono un paio i calzini. «Meno male che il peggio è passato». A dire il vero il peggio è arrivato dopo questa intervista. Chissà se Lenny sarà anche adesso al suo posto, con una temperatura glaciale a rendere ancor più triste e faticoso quel disperato tentativo di piazzare un oggetto che lui chiama lavoro.
Ciao, non pensavo di incontrare qualcuno anche oggi. Credevo che il parcheggio fosse deserto. Ma non hai freddo?«No, non ho freddo, sto letteralmente congelando. Sotto i guanti non sento più le mani. Ogni tanto entro a prendere un caffè, giusto per scaldarmi un po’. Qui si muore».
Mi dispiace. Riesci almeno a guadagnare qualcosa?«Che alternative ho? Se non vengo qui di sicuro è un giorno senza guadagno. Almeno ci provo. Con questo freddo vendo molto meno, ma c’è più gente che mi allunga un euro. E magari a fine giornata qualcosa da parte l’ho messo anche. Solo che decisamente a caro prezzo».
Sono allibita.«Da cosa?».
Dal fatto che tu e i tuoi “colleghi” siate qui da stamattina. Comunque non commento. Passiamo oltre e veniamo a te: da dove vieni? «Da un posto caldo che si chiama Senegal».
Caldo è caldo. Credo che in questo momento ti manchi parecchio...«Pagherei per fare il pieno di sole, in questo preciso momento. L’inverno qui è lunghissimo».
E da quanto tempo ti trovi in Italia?«Più o meno sei anni, non sto a fare il conto. Ormai è una vita che mi trovo qui. Sei anni sono tanti».
Però sento che l’italiano un po’ ti tradisce.«Ho degli amici che parlano benissimo, io personalmente faccio fatica. Forse perché non ho molte occasioni, forse perché in fondo mi accontento così. Mi sono messo in testa che presto me ne torno a casa, quindi non impazzisco più di tanto per imparare l’italiano. Dove non arrivo, provo con il francese, e bene o male la gente mi capisce».
Vuoi tornare a casa?«Partirei domani, ma non ho i soldi. Una parte l’ho spesa qui per pagare l’affitto, la merce e le varie bollette, salatissime. Un’altra parte invece è andata dritta in Senegal, a due indirizzi».
Ossia?«Quello di mia mamma e quello di mia moglie. Entrambe si aspettano molto da me. A dire il vero tutta la mia famiglia si aspetta molto da me. Se solo sapessero come si vive qui, magari smetterebbero di avere pretese. So di amici che si indebitano per compare i regali da portare a casa quando partono in visita. C’è chi ti chiede le scarpe, chi vuole un maglietta. “Dai, tu che stai in Europa, portaci qualcosa”. Vorrei che mi vedessero in questo momento. O forse no».
Credo che se ti vedessero sarebbero dispiaciuti. Un africano non è poi tanto avvezzo al freddo...«La cosa più assurda è come si riduce la pelle delle mani. Diventa più spessa, si squama, non so. I guanti non bastano; non farmici pensare, dai».
Giusto. Raccontami la tua vita prima di partire.«Aiutavo il panettiere del mio quartiere. Era un lavoro semplicissimo, banale se vuoi, che mi portava miserissimi guadagni. Ma adesso sarei disposto a fare i salti mortali per tornare indietro. Sarebbe meraviglioso se potessi fare il panettiere qui, con un po’ più di soldi in tasca e un lavoro sicuro. Facevo il panettiere e non ero contento, adesso faccio l’ambulante ed è anche peggio».
Ma allora perché non torni in patria?«Te l’ho detto, non ho i soldi. E dove vado senza soldi? Mia moglie sarebbe felicissima se tornassi; sicuramente anche i miei figli. Ma sono qui per loro. Senza la speranza dell’euro la mia famiglia non avrebbe nulla da mettere sotto i denti».
Perché l’Italia?«Perché in Francia mi avrebbero rispedito a casa, mentre qui in Italia, a quanto pare, c’è un pochino più di tolleranza nei confronti della gente come me».
Cosa intendi con “gente come me”?«Intendo gente che non ha i documenti e tira a campare in qualche modo. Oddio, non che prima di partire volessi fare una vita simile: non era nelle mie intenzioni. Speravo di trovare un lavoro normale, magari in una ditta come operaio. Di certo non era questo il mio obiettivo. Ma i mesi passavano e io non riuscivo a trovare lo straccio di un impiego. E intanto i soldi diminuivano. C’erano i miei amici a darmi una mano, questo è sicuro, ma non potevo andare avanti in quel modo all’infinito. Così alla fine mi sono deciso, e ho accolto il consiglio di un connazionale. Una parte di me, però, per parecchio tempo ha continuato a sperare in un lavoro “normale”, che almeno mi permettesse di sapere su quanti euro al giorno potevo fare affidamento».
E invece niente.«Macché. Non so come abbia fatto chi è riuscito a trovare un lavoro decente e a sistemarsi in questo Paese. Non so se è la fortuna che mi manca, o le conoscenze, o un bella casualità, fatto sta che sono qui».
Senti spesso la tua famiglia?«Sì, una volta ogni due settimane. Per me è anche un modo per tenere sotto controllo i miei figli che crescono, senza dar troppo loro la sensazione che il padre sia assente. Io non ho conosciuto mio padre, e quindi non voglio che per i miei figli sia lo stesso. Sono lontano, ma ci sono. Glielo ripeto sempre, che se lo stampino nella testa».
Tuo padre dov’era?«Con un’altra famiglia. Un giorno ha brillantemente deciso di rifarsi una vita. Passi per mia mamma, ma nei suoi progetti non c’eravamo nemmeno io e mia sorella. È stato allora che ho avvertito come una sorta di “pressione”».
Cosa intendi?
«Che sapevo benissimo cosa sarebbe accaduto: avrei dovuto provvedere io a mia sorella e mia madre. Ce la mettevo tutta, ma con i nostri stipendi non si va da nessuna parte. Poi quando alla famiglia si è aggiunta mia moglie e in seguito i due bambini, le mie tasche sono saltate per aria».
Come sei arrivato in Italia?«Con un viaggio che non si racconta, ma che nemmeno si dimentica. Sono arrivato via terra, poi via mare, poi ancora tutta l’Italia via terra. Dovevo raggiungere un mio amico, quel ragazzo che lavora là in fondo. È stato lui a darmi una mano».
Cosa farai in futuro, Lenny?«Non lo so. Probabilmente cercherò di risparmiare un po’ di soldi per tornare a casa. Forse no: magari a un certo punto mi convincerò che il fatto che io stia qui fa bene a tutti. In fondo nessuno dei miei è più indigente, da quando mi trovo in Italia. Solo che ogni tanto vorrei sentirmi diversamente».
Come?«Libero di muovermi e fare, diverso. Questo lavoro è anche una condanna. Non so, mi sento triste. Adesso scusa, ma devo fermare quella signora. Di solito qualcosa lo compra sempre».
Ciao Lenny, forza.«Sono una macchina da guerra. Ciao».
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