«La matematica non bastava per vivere»

In Russia Emma era insegnante di liceo, ma da dieci anni fa la badante

Emma ha quarantacinque anni ed è una delle tante badanti che se ne stanno rinchiuse nelle nostre case. Ha una storia toccante alle spalle, che l’ha vista lasciare l’impiego da insegnante di matematica per garantire la sopravvivenza ai figli e alla madre. I quali, ancora oggi, dieci anni dopo, dipendono da lei.

Da donna pratica, tutto sommato soddisfatta della propria vita e del proprio lavoro, Emma crede che non ci si debba troppo lasciare conquistare dalla nostalgia. Non fa parte di lei. Ma pensare al tempo sottratto ai figli le toglie il fiato. «Sono cresciuti, oggi hanno ventuno e diciassette anni. Quando sono partita ne avevano undici e sette. Sai cosa vuol dire tutto questo? Che io non c’ero».

Invece Emma c’era, eccome. Con il pensiero, con il suo amore, con quel legame fortissimo che lega una mamma ai propri bambini.

Emma, mi dicono che fai la badante...

«Ormai sono molti anni, quasi dieci. Non sempre con la stessa signora, quello no. Ho cambiato famiglia tre volte. Ci sono stati i ricoveri e i funerali. È questo il mio lavoro. Il problema è che mi sono sempre affezionata alle mie “nonne”. Non posso pensare di prendermi cura di loro senza provare affetto. E questo si traduce in sofferenza».

È vero...

«Ma anche in tanta gioia, soprattutto quando le vedi felici per cose semplicissime, come una chiacchierata, una carezza sul viso o la camomilla la sera prima di dormire. C’è chi decide di vivere il mestiere di badante come un lavoro, punto e basta, e chi invece, proprio come me, lo sente come un’occasione di relazione, un modo non solo per tirare a campare, ma anche per stare con gli altri».

Cosa facevi nel tuo Paese?

«In Russia? L’insegnante di matematica al liceo. È stato il mio lavoro per una vita. Vedi? In qualche modo sono sempre stata una persona che vuole “dare” qualcosa. Mi piaceva fare l’insegnante. Lì mi occupavo della prima parte della vita delle persone, qui dell’ultima. Sono importanti entrambe, non credi?».

Perché sei venuta in Italia?

«Perché un’insegnante di matematica in Russia guadagna una miseria e se suo marito non c’è più e ci sono due figli di cui prendersi cura, si fa presto a capire che i conti non tornano. Ci sono le spese da pagare, la suola, le esigenze dei ragazzi. E poi mia madre a carico, perché con la pensione non può nemmeno sopravvivere. Io ero l’unica in famiglia a poter fare la differenza, ecco perché sono venuta in Italia. Qui ho molto sentito parlare di crisi. Credetemi se vi dico che rispetto a noi state ancora benissimo».

È così dura in Russia?

«Più di quanto immagini. A mia mamma hanno staccato la corrente più volte. È una donna anziana, che ogni tanto mi fa chiamare dalla vicina perché le mandi i soldi per pagare le bollette. Quando non ha la corrente usa le candele. Credo che qui siano in pochi in queste condizioni. Non sto giudicando, sto solo cercando di farti capire».

Effettivamente ci guardiamo poco intorno.

«Questo vale per tutti. In cuor nostro sappiamo che c’è sempre qualcuno che sta peggio, ma non ci accontentiamo mai, o quasi».

Con chi stanno i tuoi figli?

«Con mia sorella e la sua famiglia. È una donna molto in gamba, li sta crescendo benissimo, e questo da un lato mi fa un immenso piacere, dall’altro lato mi fa sentire ancora più lontana».

In che senso?

«Nel senso che “vedo” i miei figli cambiare continuamente, crescere, diventare uomini, e io non sono lì con loro. Ci sentiamo con il computer, chiacchieriamo anche per buone mezz’ore, ma io non sono lì. Un giorno mio figlio mi ha detto: “Mamma, non riesco a fare i problemi di matematica”. Mi si è stretto un nodo in gola. Mi veniva da piangere».

Ci credo.

«Poi sai che ho fatto? L’ho aiutato a fare i compiti con la webcam. Alle fine aveva capito. Ero felice e affranta nello stesso tempo. Non farmi pensare a quante cose sto perdendo, a quanto tempo sto lasciando scorrere».

Quante volte sei tornata in patria dal giorno della tua partenza?

«In quasi dieci anni sono tornata quattro volte. È costosissimo rientrare».

Davvero?

«Sì, ma non per il biglietto, per i regali».

Ah.

«Tutti credono che qui sia il Bengodi, che i guadagni siano strepitosi e che il benessere piova dal cielo. Da un lato è vero che gli stipendi sono consistenti rispetto ai nostri, ma dall’altro lato tutto è proporzionato o quasi, spese incluse. Comunque ogni volta che ritorno ci sono i regali per mia mamma, mia sorella, suo marito, i nipoti, i miei figli, mio fratello e la sua famiglia. Mi ci vuole del tempo per racimolare tanto denaro. Quindi torno a casa una volta ogni due anni».

Ma non sarebbe meglio fare meno regali e tornare più spesso?

«Non me la sento, non è così che vanno le cose».

Avevi qualcuno disposto ad aiutarti qui in Italia?

«No, sono arrivata da sola, senza nemmeno un indirizzo. Ho trascorso qualche notte in albergo a Milano, poi ho incominciato a chiedere».

A chi?

«Alla gente, alle persone straniere come me. Così dall’albergo sono passata al posto letto a un costo decisamente più accessibile. In capo a quattro settimane grazie al passaparola avevo anche un lavoro. Erano bei tempi, quelli, perché non dovevi essere analizzato dalla testa ai piedi per i documenti. Adesso prima di assumerti le persone si pongono mille dubbi».

Come sei arrivata nel Lodigiano?

«Scendendo lentamente da Milano. Il mio primo lavoro è stato a San Giuliano, poi a Melegnano, il penultimo e questo nell’hinterland lodigiano, se così si può dire».

Sempre come badante?

«Sì, sempre come badante, anche perché mi sembra il lavoro per cui c’è più richiesta. Non ho mai dovuto mettere nemmeno un’inserzione, sai?».

Sempre il passaparola?

«Esatto. Alcune mie amiche si sono “bruciate il terreno”, come dico io: magari non si trovavano bene con una famiglia e incominciavano a comportarsi male. Non hanno più trovato un posto, o chi ha avuto la fortuna ci ha messo un sacco di mesi. Io ho sempre pensato che comportarsi bene paghi, e mi sembra che sia davvero così. Pensa che in due occasioni sono stati proprio i miei datori di lavoro a sistemarmi, non ho dovuto nemmeno alzare il telefono. Interessante, vero?».

Vero. Ma tu hai un progetto in testa? Per quanto tempo ti fermerai qui?

«Quando sono partita non avevo progetti: volevo solo sopravvivere e aiutare i miei figli. Non avevo idea di cosa avrei trovato qui e l’Italia per me era poco più di pizza, spaghetti, Papa e moda. Una volta arrivata a destinazione mi sono resa conto delle possibilità che questo Paese poteva offrire. Con il lavoro ho poi iniziato a fare qualche conto».

E adesso?

«Adesso un piano ce l’ho: mi servono ancora sette anni circa, se tutto va come deve, per finire la ristrutturazione di casa mia e aprire un negozio. A quel punto i ragazzi avranno finito l’università e probabilmente staranno lavorando. Io aprirò la mia bottega e vivrò in Russia con la mia famiglia».

Che tipo di bottega?

«Qualcosa di utile, come un negozio di alimentari. Quelli vanno sempre».

Hai le idee chiare, a quanto vedo.

«Ora sì, dopo dieci anni mi sono “schiarita” le idee. Sono uscita dalla fase della sopravvivenza e sto cercando di progettare un futuro decente. Credo di esserci quasi».

E per Natale?

«Lo festeggerò con la mia “nonna” e i suoi cari. Ma il computer sarà acceso tutto il giorno perché voglio abbracciare, anche se solo virtualmente, tutta la mia famiglia».

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