«Io, Mahdi, come quelli di Lampedusa»

Senegalese, oggi intasa cassette della posta di promozioni pubblicitarie

«Li ho visti sbarcare sulle coste di Lampedusa al telegiornale, l’altra sera, e subito ho ripensato al mio viaggio. Mi è venuta la pelle d’oca». Con queste parole Mahdi ha iniziato la sua intervista, spingendosi con i ricordi a sei anni fa, quando tutta la sua vita stava in un sacchetto e il suo futuro era solo un sogno da costruire. Senegalese, ventottenne, una buona parlantina e la voce sempre allegra, Mahdi in Italia ha fatto un po’ di tutto: è stato “commerciante”, muratore e imbianchino. Adesso, con la crisi e la penuria di lavoro, trascorre il tempo libero sulla strada, per intasare le nostre cassette della posta di promozioni pubblicitarie. «Basta che mi paghino, e io mi do da fare». È questa la sua filosofia; anche perché in patria non ci vuole più tornare e se l’obiettivo è fermarsi in Italia, «bisogna sapersi accontentare, lo dico sempre anche ai miei fratelli». Mahdi non si lamenta, sebbene oggi guadagni meno della metà di quel che riusciva a portare a casa solo due anni fa. «Credimi – ha spiegato – è sempre meglio che stare in Senegal, dove se ti va bene muori lentamente di fame. Qui posso sperare che prima o poi le cose cambino. E poi, ho messo in gioco tutti i miei soldi e anche la mia stessa vita per arrivare fino a qui. Nossignore, indietro non si torna».

Buongiorno Mahdi, potresti dedicarci qualche minuto per raccontarci chi sei?

«Scusa, sai, ma qualche minuto non ce l’ho. Li vedi questi pacchi di carta? Devo depositarli nelle cassette di tutto il quartiere entro la mattinata. Non posso fermarmi».

E se ti accompagnassi?

«Se mi accompagnassi mi farebbe piacere, almeno avrei modo di scambiare due parole. Cosa vuoi sapere?».

Cosa significa essere uno straniero in Italia, per esempio.

«Hai visto il telegiornale? Tutti quei libici e tunisini che si tuffano da barconi malconci, con le facce stanche e l’aria di aver attraversato l’inferno? Ecco, anche la mia esperienza in Italia è iniziata in quel modo, con il giro della morte in jeep nel deserto, niente acqua, e poi improvvisamente su una barchetta scassata circondata dal mare, troppa acqua. E come se non bastasse io non so nuotare».

Terribile.

«Io non so come i profughi di questi giorni abbiano trovato il mare. Nel mio caso di notte era veramente mosso. C’era gente che stava male, uno dopo l’altro, vuoi per le onde vuoi per il disgusto, e tutti avevamo paura di non farcela, di non arrivare vivi, capisci? Quando ho visto il momento dello sbarco alla televisione, mi è venuta la pelle d’oca. Nel mio caso si trattava della Sicilia, su una spiaggia isolata, ma il concetto non cambia: prima la paura, il terrore, poi il sollievo di essere finalmente arrivato a destinazione».

Ma lo sbarco non è la fine, è l’inizio.

«No, credimi, è la fine di un viaggio tanto voluto quanto temuto, il resto del percorso è in discesa. O almeno così si spera».

Tu perché sei partito?

«Sei mai stata in Senegal? Non mi stupisce. Se venissi a vedere con i tuoi occhi come si vive da noi, capiresti immediatamente perché tanti se ne vanno. Molte cose che qui considerate “normali” da noi sono sogni proibiti. E non pensare ai beni di lusso. Per un ragazzo come me, senza una famiglia potente alle spalle, in Senegal anche lo stesso lavoro è un sogno proibito. Dopo le scuole superiori mi sono aggirato senza sosta per tutta la città alle ricerca di un impiego qualsiasi. Risultato, ho imparato a fare mille lavoretti e a tirare la cinghia. Ma capirai che in quelle condizioni pensare al futuro è decisamente frustrante».

Chi ti ha consigliato di emigrare?

«Un ragazzo della mia città, più grande di me di cinque anni. Si trovava in Italia da tempo e ogni volta che rientrava in patria sembrava avesse il mondo in mano: scarpe di lusso, un cellulare nuovo di pacca, regali per tutta la sua famiglia. Un nababbo. “Jalil – gli ho detto una sera – dimmi come hai fatto. Io voglio vivere come te”. È stato lui a consigliarmi di attraversare il deserto e partire dalla Libia, arrivare nel sud dell’Italia, “dove poco importa”, e muoversi verso Roma. “Ti ospito se non sai dove andare”. Non avevo bisogno d’altro, a parte un po’ di soldi».

Dove li hai trovati?

«Ho utilizzato i miei spiccioli, i risparmi della mia famiglia e chiesto un prestito a Jalil. Ovviamente ho restituito tutto a tutti. Comunque, con i soldi in mano mi sono messo in viaggio, come già lo sai, fino a Roma. Lì mi sono fermato per un anno a casa di Jalil».

Qual è stato il tuo lavoro per quell’anno?

«Commerciante di prodotti simili a quelli delle grandi marche».

Simili?

«Ok, identici, come sei precisa. Ma non avevo tante scelte, il mercato questo offriva. Poi però mi sono stancato. I guadagni, con tutto quel turismo, non erano male, ma ogni due per tre la merce mi veniva sequestrata e io dovevo fuggire a gambe levate. No, io sono un ragazzo onesto e voglio stare tranquillo. Così, saldato il debito con Jalil, mi sono messo in contatto con un amico che vive a Lodi».

Qui hai trovato un altro lavoro?

«Ho fatto il muratore, mestiere che amo, per quattro anni. Ho spedito talmente tanti soldi a casa che i miei genitori hanno comprato casa mentre i miei due fratelli non hanno più avuto problemi economici con le rispettive famiglie. La crisi non ci voleva proprio».

Sei rimasto senza lavoro?

«Esattamente: meno case da costruire significa meno muratori. Dal giorno alla notte mi sono ritrovato disoccupato, meno male che avevo da parte qualche risparmio. Mi sono rimesso in gioco in mille modi: ho fatto l’imbianchino, ho aiutato un’amica in negozio, ho contattato tutte le agenzie di lavoro interinale della città. Niente. Quindi alla fine ho accettato questa proposta».

Volantinaggio.

«Esattamente, da un annetto circa faccio volantinaggio. Una gran fatica per una paga misera, ma meglio di niente. Quando facevo il muratore andava bene: certo, la sera rientravo a casa distrutto, ma almeno a fine mese avevo di che essere contento. Adesso invece il mio mondo è cambiato».

Non credi sia meglio tornare a casa?

«No, non è meglio per niente. Qui posso sperare che le cose cambino, anche perché questa crisi non andrà avanti all’infinito. In Senegal invece prima che la situazione cambi passeranno parecchie generazioni. Per quanto mi riguarda, non ho più speranze».

Ma quindi andrai avanti con il volantinaggio? Si riesce a vivere?

«Sì e dipende. “Sì”, andrò avanti con il volantinaggio sperando che continui a esserci lavoro – e su questo credo di poter stare abbastanza tranquillo. “Dipende”, invece, riguarda la sopravvivenza. Prima ti dicevo che se c’è una cosa che ho imparato in Senegal è come tirare la cinghia senza crollare. Al momento sto mettendo a frutto questa competenza, e ce la faccio».

Da solo?

«No, ci sono i miei fratelli a darmi una mano. Li chiamo “fratelli”, ma in realtà sono amici. Grazie a loro posso contare su un posto letto a basso costo e ho sempre la certezza di avere qualcosa da mettere sotto i denti. Bisogna avere pazienza».

Per quanto ti fermerai qui? Qual è il tuo progetto?

«Ovviamente vorrei restare in Italia per sempre: oltre ad apprezzare il vostro Paese, devo dire che qui ci sono tutti i miei amici, la mia vita. Il mio progetto è quindi tornare a casa solo per le vacanze e magari per un matrimonio, per il resto vivere a Lodi. La ciliegina sulla torta sarebbe riuscire a spedire un po’ di denaro alla mia famiglia».

Li senti spesso?

«Certo, anche perché in sei anni sono tornato in patria solo una volta, una soltanto. Quindi chiamo spesso, almeno una volta alla settimana. Mia mamma si commuove ancora adesso; forse perché sono il figlio minore, forse perché anche lei si è accorta che le cose non vanno, visto che ultimamente non ho potuto inviare il becco di un quattrino. Mi ripete di tornare, che non c’è nulla di male, ma io non cedo».

Perché?

«Quando tornerò sarà con le scarpe di lusso, il cellulare nuovo di pacca, una valigia di regali e un look impeccabile. Voglio che tutti pensino: “Mahdi ce l’ha fatta”. Allora sì che potrei prendere in considerazione di trasferirmi definitivamente in patria. Da perdente, non se ne parla».

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