Ettore è una delle tante “vittime” della crisi: un padre di famiglia senza lavoro che spera con tutto se stesso in un domani diverso. La domanda, per lui come per gli altri, è sempre la stessa: arriverà mai questo domani? E come troverà le persone che ha lasciato “sospese” nella lunga attesa? Quarantaquattro anni, di cui dieci trascorsi in Italia, Ettore è un uomo che non ama piangersi addosso. Non vuole essere il “caso sociale”, come dice lui, di cui avere compassione. Vuole solo trovare un lavoro e conservare la propria dignità. Il piano B c’è: si tratta di un appartamento ristrutturato nel cuore della Romania, di quel tetto sulla testa che per fortuna Ettore e la sua famiglia avranno sempre. Ma il sogno del nostro protagonista è ricominciare a vivere qui in Italia, il Paese che ha scelto come casa. Buongiorno, cosa fa qui di bello? «Aspetto».
Cosa?
«Che le cose cambino. Scusa, ma non sono in vena di parlare».
Io a dire il vero vorrei scrivere la sua storia.
«Sì, ma io non voglio fare il “caso sociale”».
Alt, ricominciamo. Io scrivo per il Cittadino e racconto le storie delle persone straniere che hanno scelto di vivere in Italia. Volevo solo sapere se è disposto a raccontarmi la sua, tutto qui.
«Non avevo capito, pensavo stesse facendo qualche indagine per chissà chi. Vuole che le racconti la mia storia? Bell’affare, sai che storia».
Perché?
«Perché la mia vita fa schifo, ecco perché. Ho due figli e non ho un lavoro. Ci mantiene mia moglie che fa la donna delle pulizie. Cinquecento euro al mese in quattro. Abbiamo poco più di cento euro a testa. Una bella cifra, no? Non ci compro manco le sigarette. Non che la cosami importi, visto che non fumo».
Da quanto tempo vivete così?
«Vuoi dire da quanto tempo ho perso il lavoro? Sono quattro mesi. Stiamo dando fondo ai risparmi di una vita. Sul conto avrò circa tremila euro: ci basteranno ancora per qualche mese. Poi cosa succederà quando non riusciremo a pagare il mutuo? Trecento euro. Ce ne resterebbero duecento in quattro: cinquanta euro a testa al mese. Chi riesce a vivere qui con quella cifra?».
Mi dispiace.
«Mi fa piacere che ti dispiaccia ma purtroppo questo non mi aiuta».
Che disastro.
«Ti dicevo che non voglio fare il “caso sociale”. Ma la mia vita è questa».
Ha provato a chiedere in giro?
«Guarda, ci sono due connazionali che si sono attivati per me. Mi dovrebbero fare sapere la prossima settimana. E poi c’è mia moglie che forse riesce a lavorare un po’ di più per una famiglia, il che significa più soldi in casa. Ma per ora il quadro è questo. Quindi me ne sto qui e aspetto che la mia vita cambi, perché di torturarmi psicologicamente non ne ho molta voglia. Io già non ne posso più di questa crisi. Se le cose non vanno come devono, puoi scommettere che me ne torno a casa».
Dove?
«In Romania. Vendo tutto e me ne torno in patria, perché in questi anni ho ristrutturato la casa e almeno ho un tetto sulla testa. Non so chi andrà a dirlo a mia moglie. Magari lei resta qui. Per i miei figli sarà una vera tragedia. Ma non ho alternative».
Sono nati in Italia?
«Non il più grande, che ha sedici anni. Il piccolo, invece, dieci anni, sì. Hai capito? Vivo qui da più di dieci anni e devo rimpacchettare tutto e tornare a casa, con le pive nel sacco. Mi sento male».
Cosa l’ha portata qui?
«Il bisogno di guadagnare di più di quanto guadagna un camionista rumeno. E all’inizio era tutto rose e fiori: un lavoro da operaio in tempi brevi, uno stipendio, l’acquisto di una casa, la gioia di un altro figlio, mia moglie che trova lavoro. Lo sapevo che era troppo bello per durare. Sembra che la vita voglia prenderci in giro: ci fa sognare e poi ci toglie tutto».
Non dica così.
«Cos’altro dovrei dire? Tocchi con mano il benessere, smetti di avere preoccupazioni, e poi torna tutto come prima. Il problema è che tu non sei più quello di prima».
Com’era, prima?
«Avevamo a malapena i soldi per le prime necessità. Facevo il camionista: avevo davanti centinaia di migliaia di chilometri da percorrere, uno stipendio da fame per il resto della mia vita e una pensione da fame ancor più dello stipendio. Non si parlava mai di futuro, a casa nostra. Non potevamo permettercelo. Poi incrocio un tizio in una stazione di servizio. Tornava in Italia, era entusiasta: “Lavori il giusto, guadagni parecchio, non hai più problemi”. Diceva di vivere a Verona. Per me Verona, Trapani o Bologna erano esattamente la stessa cosa: non conoscevo nessuno in nessuna di questa città. Ma quando c’è stato da decidere la meta, il nome di quella città ha continuato a risuonarmi in testa. “E allora vado a Verona”, mi sono detto. Così è stato».
Quanto tempo è stato a Verona?
«Un anno. Lavoravo in un ristorante, pulizia piatti. Un lavoro pesante, pochi euro in cambio. Poi un connazionale mi chiama: “Cercano a Lodi, un mio amico ha sentito che pagano bene”. Mi ci sono buttato. Nel giro di un paio di settimane avevo il lavoro, un signor lavoro. È andato tutto bene, fino alla maledetta crisi».
È stato un periodo felice, a quanto racconta.
«Ma sai che gioia quando mi sono comprato la mia prima auto? Una macchina vecchiotta e piccolina, pagata poco più di tremila euro, ma io su quel mezzo mi sentivo un re. E poi c’erano i comfort in casa, come un bel televisore, il cellulare e tutte quelle piccole cose che danno soddisfazione, ad esempio il frigorifero sempre pieno. Ogni mese riuscivo anche a spedire ai miei familiari un po’ di soldi. È stato in quel periodo che ho ultimato la ristrutturazione della mia casa in Romania».
Che lavori ha fatto?
«Il tetto nuovo, l’impianto di riscaldamento perché non c’era e il nuovo impianto elettrico. Ho fatto anche sostituire tutte le imposte. Meno male che almeno, ripeto, ho un tetto sulla testa, nessuno mi può sbattere fuori da casa mia».
Quali erano i suoi piani originari?
«Volevo restare qui con la mia famiglia e utilizzare la casa in Romania solo per le vacanze. Io non ho ancora perso tutte le speranze. Quasi, ma non tutte. Spero che i miei connazionali riescano a darmi una mano. Ci voglio credere».
Buona fortuna, Ettore.
«Chissà che non sia davvero buona».
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