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Mercoledì 03 Ottobre 2012
Il sogno perduto della piccola Amina
«In Marocco avrei fatto la maestra, qui in Italia non so cosa mi attende»
Amina è una ragazza in gamba, forse troppo, perché ha già visto quel che sarà il suo prossimo futuro e ha perso il bene più prezioso per una diciottenne: il sogno. Studentessa per dovere, in Italia ha incontrato delle amiche con cui gioca a scardinare gli stereotipi e che la trattano ora con curiosità ora con sospetto, come animali che si annusano. «Io sono andata subito con loro a mangiare una pizza, invece a me ci sono voluti mesi per convincerle ad assaggiare il couscous di mia madre, che poi hanno trovato buonissimo». Nel racconto della sua storia, quel che si legge è un’ottima capacità di adattamento – le amiche, il diploma a giugno, la vita sociale – per compensare la profonda nostalgia del suo Marocco. Non le abbiamo chiesto se un giorno vorrà tornare in patria: non ce n’è stato bisogno.
Stai tornando a casa da scuola?
«Sì, per oggi basta, vado a casa, sono stanca. Mi sa che ho anche un po’ di febbre. Non so, ho i brividi. O è l’umidità o, appunto, la febbre».
Mi racconti la tua storia per il Cittadino?
«Ma sei matta? E se poi mi riconoscono?».
Chi?
«I miei compagni di classe oppure i miei genitori. No, dai».
Possiamo usare un nome di fantasia e non dire dove studi, così nessuno ti riconosce. A me interessa solo raccontare la tua vita.
«Ok, si può anche fare, ma che nome uso?».
Puoi deciderlo tu. Pensa a quello di tua nonna, di una tua zia, di un’amica cui sei legata.
«Allora va bene, Amina, chiamami Amina».
Quanti anni hai, Amina?
«Diciotto compiuti da poco, frequento l’ultimo anno. Ancora pochi mesi e mi diplomo. Pensa che avevo iniziato a frequentare le scuole superiori solo per imparare l’italiano e far passare il tempo».
Davvero?
«Sì, arrivavo proprio subito dopo aver finito le scuole in Marocco, con mia madre e mio fratello più piccolo che doveva iscriversi in quarta elementare. Potevo restarmene a casa, tutto sommato, ma sapevo che mi sarei annoiata a morte. Mio padre mi aveva detto: “Ho capito che qui quasi tutti frequentano le superiori, puoi farlo anche tu”. Mi sembrava un’occasione interessante, soprattutto perché se me lo proponeva mio padre non dovevo farmelo ripetere due volte».
Si trattava di una di quelle proposte “fortemente raccomandate”, tradotto: obbligatorie? Ne ho sentite molte.
«Brava. Ma poi cosa facevo a casa? Mi dicevo: “Cavolo, qui non conosco nessuno, finisce che passo il resto della mia vita a fare pulizie in casa e a bere il tè con le amiche della mamma”. Mi sentivo male al solo pensiero. Poi, invece, per un po’ mi sono sentita male davvero al pensiero della scuola».
Immagino...
«Sai cosa vuol dire stare cinque ore in aula e non capire una parola? Dopo mezz’ora ti annoi, se ti va bene. Dopo due ore vorresti solo dormire. Ogni giorno, con l’aiuto delle compagne e dei professori intuivo sempre di più, conoscevo qualche vocabolo nuovo, ma è stata durissima e mi hanno promossa secondo me più per sostenermi che per altro. Che disastro. Ogni domenica ero in lacrime».
Quindi cosa è successo?
«Durante l’estate fra la prima e la seconda sono uscita con le mie amiche, ho guardato parecchia tivù, ho studiato e fatto i compiti, e magicamente l’italiano si è trasformato da scoglio insormontabile a scoglietto. Poi nel corso dell’anno è diventato chiaro. A quel punto c’era solo da capire il contenuto delle lezioni, non sempre facile ma lì bastava studiare».
Come ti sei trovata con le amiche?
«Bene, benone».
Guarda che puoi dire tutto quello che pensi, non ti riconosce nessuno.
«Bene, ma che stress».
Per il velo?
«Ancora oggi saltano fuori con la domanda: “Ma alla fine perché lo porti?”. Me l’avranno chiesto mille volte, ma poi probabilmente non ascoltano la risposta, visto che non smettono di chiedermelo. È assurdo per me tutto questo cancan per un pezzo di stoffa sulla testa. Vorrei dire loro: bene, ragazze, provate ad andare in un Paese dove la gente va in giro in mutande. Vi dicono che è giusto così, che così è perfetto, ma voi vi sentite nude. Allora vi mettete i vostri bei jeans e tutti vi guardano come degli alieni. Come vi sentireste? Per me è lo stesso».
Perché non glielo dici?
«Perché l’unica volta che ci ho provato sono saltate dalla sedia all’inizio del pensiero dicendo che una non può sentirsi nuda con “quattro chili di capelli sulla testa”. Dicono così perché sanno che i miei sono tanti e folti. Dai, non vogliono capire, però sono delle buone amiche perché almeno fanno finta di niente».
Bene, mi fa piacere...
«Anche se a volte ti fanno cadere le braccia. Una un giorno mi chiede: ma in Marocco avete i cellulari? L’altra la guarda con aria stupita – io deduco che abbia colto la portata della fesseria – e le risponde: “Ma dai, guarda che probabilmente non hanno nemmeno la corrente, come fanno a caricarli”. Vogliono capire il mio mondo, ma non hanno la minima idea di come sia. Lo immaginano come l’ultimo angolo di Africa nera, sperduto nella foresta, dimenticato dalla civiltà. Vorrei solo portarle a casa mia per dare loro un’idea».
Le hai invitate?
«Sì, ma senza successo, i genitori non si fidano. E noi francamente non possiamo permetterci di ospitare le mie amiche e le loro famiglie, anche se la casa è grande».
Più di quella in cui vivi qui?
«Guarda, non farmi ridere. Una casa qualsiasi è più grande di quella in cui vivo qui. Abbiamo un soggiorno con cucina a vista e una camera da letto grande, con il letto dei miei e un letto a castello per me e mio fratello. In Marocco avevo la mia stanza, con i mobili tradizionali che erano stati di mia nonna. Nel mio giardino c’erano aranci e limoni, che con i loro profumi e colori scandivano le stagioni. Il mio giardino era magico. Qui ho un balcone di due metri quadri che guarda sulla strada».
Leggo un velo di amarezza, mi dispiace...
«Posso dire quello che penso?».
Certo, fa bene dire quel che si pensa.
«Mio padre ci ha aiutati moltissimo emigrando in Italia e alla fine ci ha voluto qui con lui. Ma noi non abbiamo fatto la scelta di emigrare, abbiamo vissuto la cosa come un “si deve fare, punto e basta”. Nessuno osa discutere le decisioni di mio padre. Io in Marocco stavo bene, ero a casa mia. Avevo le mie amiche, andavo a scuola e a prendere il pane, ero felice. Non mi servivano grandi cose. Qui fortunatamente ho trovato delle buone amiche, ma la vita è profondamente diversa. Ci ho messo due mesi di lavoro psicologico per farle venire a mangiare il couscous da mia mamma. Io la pizza l’ho assaggiata praticamente subito. Capisci?».
Credo proprio di sì. Ma qui hai tante possibilità in più...
«Intendi possibilità di lavoro? Non lo so. I fratelli e le sorelle maggiori delle mie compagne di scuola o studiano o sono a casa a guardare la tivù, non mi sembra ci siano tutte queste possibilità. Io non so nemmeno che lavoro vorrei fare, pensa un po’».
Davvero?
«Davvero. Mi piacerebbe insegnare. Ma cosa faccio, chiedo a mio papà di mantenermi ancora per tre anni? La vedo dura. Vado a lavorare in un negozio? O è arabo o il velo me lo strappano di dosso. Provo con la catena di montaggio? Quello sì, posso provare, ma non è certo il sogno di una vita».
E se restavi in Marocco?
«Probabilmente avrei fatto la maestra di quartiere, quello sì che era il mio sogno. Ogni volta che passavo sbirciavo dentro e sorridevo guardando i bambini che disegnavano sui quadernetti. Lo vedevo così, il mio futuro, con tanti bimbi vocianti da seguire, nel quartiere della mia città e la sera fra i profumi di arancio e limone. Quel che ho davanti è ben diverso, no?».
Non puoi smettere di sognare a diciotto anni, dai...
«Sono solo realista».
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