Il senegalese Amadou, tre bambini, affamato parcheggiatore abusivo

È abbastanza facile prevedere chi incontrerò sul mio cammino per un’intervista: se vado nel phone center di via Lodino, è probabile che incontri un indiano. Subito fuori, ci sono soprattutto nordafricani. L’Isola Carolina alla domenica è speciale per Albanesi e donne dell’est, mentre nelle zone di cantiere si trovano soprattutto uomini dell’est e marocchini. Ristoranti e bar propongono in particolare donne bionde e avvenenti, mentre i sudamericani scendono dai furgoni. Infine, fuori dagli uffici postali e dalla prefettura, c’è di tutto: se si vuole tirare a sorte, sono questi i luoghi migliori.Dove non vado quasi mai è dove le storie sono tutte uguali: lungo il parcheggio di viale IV Novembre, fuori dall’ospedale o, meglio, in quasi tutti i parcheggi cittadini e non. Qui si trovano solo senegalesi, con la stessa storia, con lo stesso dramma, in uno stato d’impasse pietrificante.Ma forse sono proprio questi frammenti di vita identici a meritare di essere raccontati, perché parlano di una condizione permanente, perché sono sfacciatamente fastidiosi, perché con loro più che con altri è difficile cambiare prospettiva. Capiamo la donna albanese disoccupata, vediamo chiaramente l’entusiasmo di un boliviano che si è affermato, sorridiamo con lo studente integrato, sogniamo con la rumena che sta facendo studiare i propri figli e respiriamo la fatica e la soddisfazione del muratore marocchino.Ma con i parcheggiatori d’ebano superare il pietismo o la stizza non è impresa facile. Sono troppi, tantissimi, questi omoni neri, con gli stessi sguardi, le stesse battute, un approccio più o meno simpatico, ma sempre identico. E se si scambiano due parole in più, si scopre che nemmeno parlano l’Italiano, e magari sono qui da cinque anni. Le loro storie non sono mai a lieto fine. Mai una sorpresa, mai un cambiamento improvviso: è sempre la solita vita di sussistenza, per anni, anni, anni. Amadou è uno di loro. Ha la pelle nerissima, carbone, i denti consumati, gli occhi scuri e intensi. Sembra un brav’uomo, sicuramente lo è. Dopo aver capito che non avrei comprato nemmeno un paio di calzini, ci ha raccontato la sua storia.

No, niente calzini, grazie. Nemmeno un accendino. No, neanche la cintura.«Io non accetto soldi così, tanto per. Non faccio l’elemosina».

Niente elemosina. Mettiamola così, pago la tua storia. Decisamente poco, ma pago la tua storia.«Questo cambia le cose».

Perfetto, allora.«Cosa vuoi sapere?».

Facciamo due chiacchiere. Voglio sapere cosa ne pensi di questa Italia, voglio capire il tuo mondo. Hai visto quanti siete solo su questa via?«Lo so benissimo che siamo tanti. Più o meno uno ogni dieci posti auto, anche otto. Certo, sarebbe molto meglio se non ci fosse tutta questa concorrenza».

Non credi che alla gente possa dare fastidio?«Ti racconto quello che vedo: ci sono persone che scendono dall’auto, salutano e sorridono. Qualcuno ha anche la monetina pronta. Ci sono persone che abbassano lo sguardo, si vede che non vogliono assolutamente essere disturbate. Altre infine partono agguerrite: “No, no, non serve niente”. Con le prime sorrido e scambio due parole. Mi sento a mio agio. Con le altre ci provo, giusto perché nella vita non si sa mai. Magari uno sembra imbronciato e invece è solo pensieroso. Io capisco che essere fermati a ogni parcheggio non sia il massimo, ma quali altre possibilità avrei? Io sono una persona onesta, posso vivere solo se lavoro. Prova a metterti al mio posto».

Capisco.«Se non fermo la gente, non racimolo niente. E con cosa mangio? Con cosa pago il posto letto? Con cosa vivo? Come faccio a mandare i soldi a casa? Il mio mondo è questo, il vostro è quello che vi portate in giro con le auto. Non ho sempre voglia di fare il simpatico, di scambiare due parole, di inventarmi battute, che son sempre le stesse. Ma se non lo faccio non porto a casa un euro».

Quanto lavori?«Inizio al mattino abbastanza presto, alle otto sono già qui al parcheggio, perché il viavai è buono. Mi fermo, a seconda della giornata, fino alla una o alle quattro e mezza, dipende da come gira. Come vedi non ho il bagno in ufficio, non ho la mensa, non ho una sedia, non ho il furgone, non ho niente con me a parte la mia merce e il cellulare. Le giornate sono lunghe, soprattutto in inverno, quando nevica o piove. E non sono il massimo nemmeno d’estate, quando ci sono quaranta gradi e l’asfalto è infuocato. Riesco a darti un’idea?».

Sì, purtroppo sì.

«D’inverno mi si spacca la pelle delle mani, e poi i giubbotti non tengono mai abbastanza caldo, nemmeno i maglioni. D’estate non c’è tregua, si soffoca. Non pensavo che l’Italia potesse essere tanto calda. Le mezze stagioni, a quanto mi dite, non esistono. E in tutto questo io sorrido e ci provo. Se mi becco qualche insulto, cerco di non prendermela».

Perché non torni a casa?«Ho tre figli: due maschi e una femmina. Hanno quindici, dodici e dieci anni. Con un lavoro in Senegal, anche decente, non è facile mandare avanti la famiglia. Qui almeno posso sperare nelle giornate buone, posso provarci. Insomma, qualcosa combino. In Senegal lavoravo in un negozio: lo stipendio non ci bastava nemmeno per le spese. Tutti partivano, anche i sassi, e così sono partito anch’io, fiducioso, ottimista. Ma quando i mesi passano e tu non hai un lavoro, e oltretutto hai indebitato la famiglia per affrontare il viaggio, accetti di fare qualsiasi cosa. Credi che non lo sappia che alla gente non importa niente dei calzini che vendo?».

Lo sai, eh?«Ma se offro anche accendini a chi non fuma dicendo che in casa possono sempre essere utili. Non vivo fuori dal mondo, semplicemente se non faccio così non campo. Vivo alla giornata, ci provo. E qualche volta va anche bene».

Ma non pensi al futuro? Non vorresti qualcosa di diverso? «Certo che lo vorrei, ma non ci penso. E grazie a Dio riesco a non pensare. Chi fa fatica ad avere un presente evita di illudersi inutilmente sognando qualcosa per il futuro. Probabilmente il mio futuro sarà identico al mio presente, punto e basta. Io mi trovo in Italia da sette anni e faccio questo lavoro da sei. Lo vedi quell’uomo laggiù in fondo?».

Sì.«Vende in strada da quasi dodici anni. Dodici anni sono tantissimi. Ma evidentemente non abbastanza perché qualcosa sia cambiato. Conosco qualcuno che è tornato a casa, ho in mente qualche volto. Non ho saputo come è andata, non ne ho idea. So che tornare è una sconfitta».

E tua moglie?«Mia moglie sa che faccio il commerciante, ma nemmeno immagina. A dire il vero non vorrei che sapesse come vivo. Per lei sto bene e sto provvedendo alle esigenze della famiglia. Ogni tanto scherza e mi dice: “Vengo anch’io in Italia”. Non sa cosa c’è qui».

A cosa ti riferisci?«Al fatto che devo lottare ogni giorno per non diventare un accattone, per guardarmi allo specchio e continuare a vedere un uomo. Questa è la grande sfida per noi: non il freddo, non i soldi, la dignità».

Grazie, Amdou, e in bocca al lupo. Anche a tutti voi, ragazzi. Buona giornata, buon lavoro.

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