«Ho fatto l’osservatore internazionale»

Il successo di Cesar Adrian Beltran Filizzola, dalla Colombia al Maffeo Vegio

Dire che Cesar Adrian Beltran Filizzola è un esempio eccellente di un’integrazione perfettamente riuscita, è senza dubbio riduttivo. Non solo: non fa giustizia ai risultati che questo ragazzo di ventitré anni ha ottenuto con le sue forze, il suo impegno e il grande sostegno della sua famiglia.Arrivato in Italia sette ani fa, Cesar ha intrapreso un percorso ricco di sfide, superate brillantemente con tenacia e determinazione: il diploma nonostante le difficoltà linguistiche dei primi tempi, la laurea in scienze politiche e relazioni internazionali, il master sull’immigrazione e i modelli familiari, poi una laurea specialistica e pochi mesi dopo l’assunzione presso una grande multinazionale tedesca. Il tutto senza dimenticare l’impegno in ambito sociale e un costante sguardo al futuro.«In Colombia, dove ho vissuto fino a diciassette anni, ho imparato a muovermi nel mondo. Poi l’emigrazione mi ha insegnato a crescere, a confrontarmi con altre culture e a mettermi in discussione. Ho capito che l’orizzonte si sposta a mano a mano che cammini. Se sei coerente con i tuoi valori, vai avanti, cresci, migliori». In Colombia si dice “echado pa delante”: andare sempre avanti, passo dopo passo, senza voltarsi mai indietro, nemmeno per prendere la ricorsa prima di un salto. Questo significa affrontare le sfide senza paura e mettersi in tasca con grande serenità tutto ciò che la vita ha da offrire.

Ciao Cesar, grazie per aver accettato di raccontarci la tua storia. Sei d’accordo se incominciamo dall’inizio, dalla tua vita in Colombia?

«Va bene. Ho vissuto in Colombia i primi diciassette anni della mia vita, trascorsi con mia madre, mio padre e mio fratello minore, oggi quindicenne. Li definisco anni di qualità, perché a Bogotá ho imparato a muovermi nel mondo, ovviamente sempre con l’appoggio della mia famiglia. Fare il genitore è davvero il mestiere più impegnativo di tutti: devi aiutare i figli a fare le scelte giuste e nel contempo lasciar loro una buona dose di libertà. È un equilibrio difficile da trovare, ma quando ce la fai la partita è vinta. Tornando a me, all’epoca studiavo al liceo e pensavo che il mio futuro mi avrebbe visto medico. Invece tutto è cambiato strada facendo».

Perché avete lasciato il vostro Paese?

«Diciamo che il motivo principale era che i miei genitori volevano garantire a me e a mio fratello un futuro migliore. Poi, come ben sai, la Colombia si trova in una situazione che definirei “particolare”. Sebbene fossimo piccoli, io e mio fratello siamo stati coinvolti fin da subito in questa scelta. Non l’ho mai vissuta come un’imposizione, anzi: a dire il vero io ero entusiasta all’idea di partire. La vedevo come un’occasione per crescere e arricchirmi culturalmente, un’opportunità. E così è stato».

Perché proprio l’Italia?

«Perché mio nonno materno era italiano. È stato questo a portarci qui. Io mi sono messo in viaggio per primo, seguito immediatamente dalla mia famiglia. Abbiamo vissuto a Roma per due mesi, poi ci siamo trasferiti a Lodi, città ideale perché vicina a Milano, ma con costi decisamente più contenuti».

E qui è iniziata la parte più difficile per te: l’integrazione.

«Sai che non è stato difficile per niente? Sono stato inserito in quarta superiore al Maffeo Vegio di Lodi, dove sono stato accolto come un italiano, senza problemi. Noi latinoamericani fortunatamente siamo ben visti».

Davvero?

«Sì, lo dimostra il fatto che non mi è mai capitato di sentirmi discriminato in Italia. Poi, finite le superiori, mi sono iscritto a scienze politiche e relazioni internazionali».

Non dicevi di voler fare il medico?

«Le esperienze che fai nella vita ti portano a cambiare e a scegliere percorsi diversi. Dal giorno della mia partenza mi sono appassionato a tutto ciò che è confronto e incontro fra culture, e lì mi sono buttato. Dopo la laurea ho anche ottenuto un diploma di master in immigrazione e modelli familiari. Quindi mi sono iscritto a una laurea specialistica in scienze politiche e relazioni internazionali dell’integrazione europea».

Un ambito molto preciso.

«Sì, e anche molto affascinante».

Ora hai un lavoro?

«Ho trovato un posto di lavoro a Milano presso una grande multinazionale tedesca. Inizialmente mi occupavo della formazione, adesso invece sono nell’area delle risorse umane. Viaggiare tutti i giorni in treno è abbastanza faticoso, ma ne vale la pena, il mio lavoro mi piace. Poi sai cosa accade? Che quando ti appassioni la distinzione fra vita privata e lavoro smette di essere così netta; diventa vita, punto e basta. Ho un ottimo rapporto con i colleghi, ho trovato persone di qualità e quindi mi sento appagato doppiamente: dal punto di vista professionale e dal punto di vista personale».

Hai ancora amici in Colombia o hai perso i contatti?

«Scherzi? Sono ancora in contatto con i miei amici più cari, ci “incontriamo” spessissimo. Grazie alle tecnologie oggi non ci si sente più tanto lontani».

Sei mai tornato in Colombia in tutti questi anni?

«Intendi dire per piacere?».

Sì, per ritrovare gli amici e i familiari, fare festa, magari fermarti un mese e riassaporare l’aria di casa, le vecchie abitudini.

«No, ma ti garantisco che mi piacerebbe. Sono rientrato solo una volta lo scorso anno per le elezioni presidenziali in qualità di osservatore internazionale. Mi sono fermato per tre giorni soltanto e non ho avuto modo di riassaporare l’aria di casa, come dici tu. Ma in futuro spero di tornare».

Visto che lo nomini, non posso non farti la domanda: cosa vedi nel tuo futuro?

«Per ora mi trovo bene qui: ci sono i miei amici, un lavoro che mi piace, molti impegni nel sociale e sto bene. Ma per il futuro non mi pongo limiti. Non escludo la possibilità di ripartire per imparare altre lingue e confrontarmi con altre culture, magari anche lavorare all’estero. Oggi non ci sono più frontiere e io vorrei viaggiare e conoscere prima di sistemarmi e costruirmi una famiglia».

Non ti fermi mai. Sei tu così o è la tua cultura ad averti influenzato?

«Entrambe le cose. Da noi si dice “echado pa delante”, vai sempre avanti, passo dopo passo, non arretrare mai, nemmeno se devi prendere una rincorsa per fare un salto. Questo è diventato per me uno stile di vita, che si combina con il mio modo d’essere e la mia esperienza. Ho imparato che più vai avanti, più il tuo orizzonte si sposta, si estende. Basta rimanere coerenti con se stessi e con i propri valori, e si può andare praticamente ovunque».

E tu dove vorresti andare?

«Mi è sempre piaciuta l’idea di lavorare in ambito internazionale e diplomatico, i miei studi lo dimostrano. Credo molto nella politica come “luogo” delle idee e del confronto. È un punto privilegiato da cui fare sentire la propria voce e condividere le idee. È lì che vorrei andare».

Tu hai il passaporto italiano?

«Ho la doppia cittadinanza».

Potresti fare il politico sia in Italia, sia in Colombia, allora.

«Vero. Staremo a vedere».

La tua vita è cambiata molto dal giorno della tua partenza. Dal tuo racconto si capisce che ha preso una strada diversa, inaspettata.

«Fin da subito mi è piaciuto il confronto con la vostra cultura e ho capito che viaggiare è la chiave per conoscersi. Le sfide non partono mai dagli altri, ma da se stessi. Il Cesar del 2007 è diverso dal Cesar di oggi. Si cambia, si cresce e si va sempre avanti».

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