Helga, addio all’Ucraina a 47 anni

Costretta a fare la badante dopo il fallimento del negozio che aveva tanto voluto

Helga ha quarantasette anni e ha lasciato l’Ucraina per riportare alla normalità la condizione economica della sua famiglia, messa a dura prova dal fallimento del suo – tanto voluto – negozio.

Sfortuna, avventatezza, incapacità: non si sa perché la piccola merceria di Helga abbia dovuto chiudere i battenti in undici mesi, fatto sta che quel giorno segna la svolta. Da allora la nostra protagonista è lontana da casa e deve occuparsi del “benessere” dei figli, ormai abituati ai nostri ritmi di spesa.

Helga non sembra una donna felice. Semplicemente, fa quel che deve. E intanto il tempo passa, inesorabile, nella sua vita sospesa.

Buongiorno, mi chiamo Elisa.

«Piacere, io sono Helga».

Curo la pagina degli immigrati del Cittadino, mi racconterebbe la sua storia?

«No, no, no, non ho tempo, devo correre a casa, grazie ma non ce la faccio. Cerca qualcun altro. Non posso».

Calma, un attimo. Non deve farlo se non vuole, ma le assicuro che è una cosa tranquilla: qualche domanda sulla sua vita e le motivazioni che l’hanno portata qui, nel rispetto della sua privacy. Se preferisce non dico dove vive e dove lavora. In tanti anni non ho mai avuto problemi, si fidi.

«Ho capito, ma cosa dovrei fare? La mia vita non è per niente interessante. Sono una signora qualunque che fa un lavoro qualunque, perché dovresti essere interessata alla mia storia?».

Che lavoro fai, Helga? Va bene se ti do del tu?

«Va bene, va bene. Faccio la badante per un signore che abita non lontano da qui. Come vedi dalle borse, sono uscita per fare la spesa. Di solito se ne occupano i figli, ma stavolta erano entrambi impegnati per un lavoro importante e hanno dato l’incarico a me. Io non posso andare al supermercato, visto che non ho la patente, quindi mi sono rivolta a questo negozio vicino a casa. Stasera preparo un bel minestrone».

Ti piace il tuo lavoro?

«Se non mi fosse piaciuto non sarei mai partita per l’Italia. Quando ho lasciato l’Ucraina sapevo che uno dei pochi lavori che avrei potuto svolgere qui sarebbe stato quello di badante, seguito a breve distanza dalle pulizie a ore. Fra i due, preferisco questo: mi dà una casa e una certa sicurezza, oltre a uno stipendio maggiore, che non guasta. Tutte le mie amiche ucraine fanno le badanti».

Di cosa ti occupavi prima di partire?

«Avevo un negozio, piccolissimo. Una merceria. Io amo cucire e ricamare ed ero riuscita ad aprire, praticamente investendo quasi tutti i soldi della mia famiglia, un negozietto di tessuti, bottoni, bordi, ricami, rocchetti e un po’ di tutto. Il giorno dell’inaugurazione ero felicissima. Vestita di tutto punto, con il negozio nuovo immacolato; mi sentivo raggiante. Ma gli affari non sono andati come speravo. Con quello che guadagnavo non pagavo nemmeno l’affitto. Probabilmente se avessi tenuto duro qualcosa si sarebbe smosso. Dovevo solo aspettare di farmi conoscere e creare il mio giro di clienti. All’inizio le attività commerciali non vanno mai come vorresti. E invece».

Invece?

«Invece non avevo i soldi per resistere. Così dopo pochi mesi, undici per la precisione, nemmeno un anno, mi sono trovata costretta a chiudere, con un piccolo debito sulla testa, per via di quel maledetto affitto del locale che non riuscivo a pagare. Da lì è stato il declino».

Addirittura?

«Sì, perché mio marito ha incominciato a rinfacciarmi che se ci trovavamo in quella condizione economica era colpa mia e della mia avventatezza. Non si lasciava sfuggire un’occasione per ripetermelo. La situazione era insostenibile e io mi sentivo terribilmente in colpa».

Lui di cosa si occupava?

«È un artigiano, un fabbro. Aveva il laboratorio accanto a casa. Un lavoro faticoso, impegnativo, che non consente grandi guadagni. Per questo ha sofferto tanto quando ha visto i suoi risparmi finire nel mio negozietto. Ma credimi se ti dico che ero profondamente convinta delle potenzialità della mia idea. Non avevo nemmeno il benché minimo dubbio di fallire non dico in pochi mesi, in pochi anni. Altrimenti non mi sarei buttata in quell’avventura coinvolgendo anche se indirettamente tutti, mai e poi mai».

Ti sei pentita?

«Esiste la parola pentitissima?».

No.

«Se non esiste la invento io. Mi sono “pentitissima” della mia decisione, anche perché ho praticamente sfasciato la mia famiglia: io adesso sono qui, mio marito vive in Ucraina con i miei due figli e tutto questo era serenamente evitabile».

Vero. Ma almeno hai provato a realizzare il tuo sogno.

«Certo, ma a che prezzo».

Di cosa ti occupavi prima del negozio?

«Facevo la cuoca in una mensa. Lavoravo solo al mattino e avevo quindi il pomeriggio libero per dilettarmi con l’hobby del cucito. Preparavo anche vestiti che vendevo ad alcune amiche. Riuscivo ad arrotondare e a garantire qualche entrata in più in casa, ed ero erroneamente convinta che così come fili e bottoni interessavano a me, lo stesso fosse per le altre donne della zona. In realtà, se tante si rivolgevano alla sottoscritta per taglio e cucito, era perché loro non sapevano farlo. Capisci?».

Sì, capisco. Quanto tempo fa accadeva tutto questo?

«Sei anni fa. Nel giro di sei mesi ero in Italia. Inizialmente sono stata a Verona da un’amica, poi mi sono trasferita nel Lodigiano da una cugina. Ho sempre fatto la badante».

Ma in sei anni non hai ripagato il debito?

«Certo, altroché. Solo che poi ci si abitua a un altro stile di vita e non si torna più indietro».

A cosa ti riferisci?

«Al fatto che i miei figli in Ucraina possono avere tutto ciò che desiderano. Hanno scelto la scuola che preferiscono, il più grande ha comprato un’automobile, vecchiotta ma pur sempre un’auto, hanno il computer in casa, tutto. Prima non ce la passavamo male, ma certe cose erano per noi assolutamente proibitive».

E tu come vivi il fatto di essere qui?

«Come ti accennavo il lavoro mi piace, e questo è un bene: le giornate passano senza troppi problemi, la vita va avanti. Ma se potessi scegliere tornerei a casa».

Sei costretta a stare qui?

«No, credimi, non sono costretta. Ma ho mandato io la famiglia in rovina e ho creato io la situazione che mi ha portata qui. Adesso non posso rispedire tutti all’anno zero. Oltretutto in patria non avrei più il mio posto da cuoca».

I tuoi figli quanti anni hanno?

«Ventisei il più grande. Sta cercando lavoro, ma senza successo. Ventuno la più piccola, che al momento studia economia all’università. È una ragazza molto in gamba. Sarà la prima a laurearsi in famiglia».

Quanto ti fermerai in Italia, Helga?

«Almeno fino alla laurea di mia figlia e finché mio figlio non si sarà sistemato, visto che vorrebbe sposarsi. Diciamo circa cinque anni».

Parecchio.

«Abbastanza, ma comunque meno del tempo che ho trascorso qui. Alla fine saranno undici anni. Un bel pezzo di vita, non trovi?».

Almeno ne vale la pena?

«Non lo so: ho smesso di avere certezze».

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