Rubriche/StorieImmigrati
Mercoledì 03 Aprile 2013
Fulvia ha lasciato la terra di Romania per aiutare le figlie
Fulvia è una quarantenne molto dolce che si è trovata costretta ad affrontare la sfida dell’emigrazione per mantenere le due figlie.Letteralmente abbandonata dal marito, si è dovuta costruire una nuova esistenza lontano da casa, nel Paese scelto quasi per gioco dalla cugina, che non stenterei a definire il suo alter ego. Mentre Fulvia piangeva e si lasciava abbattere dagli eventi, la cugina, quasi nella stessa situazione, pianificava con meticolosità e passione il futuro di entrambe. La vita di Fulvia è stata scritta dalla forza trainante di una donna di cui nemmeno conosciamo il nome. La capacità della nostra protagonista, invece, è stata quella di riconoscere la persona giusta e fidarsi delle sue scelte.Oggi, dieci dopo il giorno della partenza, Fulvia è serena ed è pronta ad affrontare la vita da sola.Grazie per avere accettato di concederci questa intervista. Fulvia, da dove vieni?«Vengo dalla Polonia, facevo la parrucchiera».In proprio?«No, nel negozio di una collega. Era un salone abbastanza grande: ci alternavamo in cinque, quasi tutte a mezza giornata per via delle famiglie. Da noi sono le donne a doversi occupare dei figli, quindi il lavoro ne risente».Come ti trovavi?«Ti dirò, benissimo. Eravamo abbastanza affiatate, i clienti non mancavano, si andava avanti, tra alti e bassi come sempre. Il problema non era sul lavoro, era in casa».Cioè?«Mio marito spariva per lunghi periodi, poi tornava con le pive nel sacco, faceva grandi discorsi per convincermi, si comportava bene per qualche mese e poi rispariva di nuovo. Nei mesi in cui non lo sentivo né lo vedevo, non si preoccupava di inviarci nemmeno un euro. Diciamo che in sostanza “si dimenticava” di avere una famiglia, tutto qui».E come facevate?«Ci pensavo io a mandare avanti la casa e la famiglia. Non avevo altra scelta. Portavo le bambine a scuola e andavo al lavoro, poi andavo a prenderle e le giornate si trascinavano così».Ma nemmeno una telefonata?«Niente di niente. Non ho mai saputo né dove andasse né cosa facesse. Tranne l’ultima volta, quando una mia zia l’ha incontrato con un’altra donna e un bambino piccolo. Era suo».Ne sei certa?«Totalmente. A quel punto ho capito che il tira e molla non sarebbe mai finito, che noi eravamo la famiglia di serie b, che tutti i ripensamenti, le promesse, i “fidati, credimi, stai tranquilla” erano solo menzogne. Potevo contare esclusivamente su me stessa».Pesante.«Sì, ma è proprio così che è andata. Il problema è che il mio stipendio non bastava per crescere due figlie, proprio no. E quando mi rivolgevo a mio marito la risposta era sempre la stessa: “Questo mese sono in difficoltà, vedrai che il prossimo ti mando qualcosa”. Mese dopo mese erano passati due anni, ormai economicamente avevamo raschiato il fondo del barile».Le bambine come vivevano l’assenza del padre?«Devo essere sincera?».Sarebbe meglio.«Sembravano più serene. Il loro padre non è mai stato uno stinco di santo, e portava in casa tutta la sua insoddisfazione e la sua insofferenza. Stiamo meglio senza di lui, mi rincresce ammetterlo, ma è proprio così».Dicevi che alla fine i mesi erano diventati anni.«Sì, due anni dopo l’ultima separazione, arriviamo alla frutta: non ci sono più soldi, nemmeno per i beni di prima necessità. Cosa potevo fare? Ho lasciato la casa in cui vivevamo, sono tornata da mia madre con le bambine».Quanti anni avevano?«Sette e dieci».Prego, continua.«Sì, sono tornata a casa da mia madre con le bambine e grazie al suo aiuto ho potuto chiedere alla mia titolare di farmi lavorare qualche ora in più al giorno. Non bastava ancora, ma sempre meglio di niente».Quindi quante ore in più a settimana lavoravi?«Dalle cinque alle sette, ma come ti accennavo non bastavano, nossignore. L’ipotesi di un secondo lavoro mi sembrava percorribile, ma non c’è stato verso di trovare un impiego, almeno non nelle ore che avevo a disposizione. Ero a terra, moralmente e fisicamente. Mia madre cercava di farmi forza, ma sembrava che la mia vita fosse un fallimento su tutti i fronti. Ero veramente depressa quando mia cugina – che non vedevo da almeno dieci anni – entra in casa e mi dice: “Fulvia, ho saputo tutto. Partiamo, andiamo in Italia”. Credevo stesse delirando».Non avevi preso in considerazione l’ipotesi di emigrare?«No, assolutamente no. E non capivo nemmeno perché mia cugina volesse coinvolgermi nella sua follia. In realtà anche a lei era capitato qualcosa di simile, anche lei si era ritrovata senza soldi e un figlio da mantenere, ma mia cugina è una persona molto più forte e risoluta di me. Così mentre io piangevo, lei prendeva contatti per cambiare le nostre vite».Una tipa tosta.«Tostissima. Se sono qui, se mia figlia maggiore è iscritta all’università e l’altra sta finendo le scuole superiori, se a casa abbiamo di che vivere e possiamo realizzare qualche sogno, è grazie a mia cugina. Una donna che nella mia vita ho frequentato solo quando ero bambina e che mi ha pensata mentre la mia e la sua vita crollavano. Le devo molto, moltissimo. Non basteranno altri mille anni per ringraziala».Torniamo alla tua vita. Tua cugina organizza e insieme partite, giusto?«Esatto. Arriviamo in Italia, a Roma».Perché?«Diceva che le piaceva l’idea della capitale, una città antica, piena di storia. Praticamente ha deciso così, quasi lanciando la monetina. Arriviamo in un momento decente dal punto di vista economico, poco più di dieci anni fa. Passiamo una settimana in albergo – una bettola a pochi euro al giorno – e poi troviamo un appartamento in cui dormire, in condivisione con altre signore».Organizzatissime.«Ti dovrei presentare mia cugina, per darti un’idea. Non la ferma niente. In capo a un mese e mezzo lei, due mesi io, facevamo entrambe le badanti in città. È un lavoro faticoso, faticosissimo, ma grazie a quel lavoro oggi le mie figlie sono serene. Siamo tutti sereni».Cosa ci fai nel Lodigiano?«Non ho voluto restare lontana da mia cugina. La signora che seguiva era stata ricoverata e lei, tramite un’amica, era riuscita a trovare un ripiego qui al nord, da una famiglia che vive appena fuori città. Io a Roma da sola mi sentivo persa. Avevo poche ore alla settimana di “libertà”, ma non sapevo come passarle, non conoscevo nessuno. Mia cugina mi faceva sentire serena, sicura. Così una sera la chiamo: “Voglio venire al nord da te, mi trovi un lavoro?”. Le sembrava assurdo».Perché?«Perché mia cugina è innamorata di Roma e ha lasciato la capitale a malincuore, giusto perché il nuovo lavoro era immediatamente disponibile e ben pagato. Comunque, eccomi qui».Vedi spesso tua cugina?«Una volta alla settimana. Lei per me è energia. Io la vedo e sto meglio, mi sento tranquilla».E le tue figlie?«Purtroppo le vedo solo una volta all’anno. Per una madre è straziante. Ma so che quello che sto facendo è un gran bene per tutti noi. Le mie figlie potranno decidere come vivere il loro futuro, grazie al mio lavoro qui in Italia».E il tuo, di futuro?«Da qui non mi muovo. Finché ci sarà lavoro, io coglierò le occasioni che questo paese ha da offrirmi. Ora sono pronta e ho la forza per andare avanti, anche da sola».
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