Francesco, il figlio di Mamma Africa

In Senegal faceva il negoziante, in Italia vende cd in un parcheggio

Francesco ha trentasette anni, viene dal Senegal, è vestito alla moda e porta i dread lunghi raccolti in una coda di cavallo.

Ogni giorno da cinque anni ferma i passanti per proporre la sua merce in un parcheggio del Sudmilano dove praticamente lo conoscono tutti. È un uomo vivace, in gamba, con la battuta pronta, che vive la sua esperienza in Italia senza entusiasmi, semplicemente sapendo di non avere alternative.

Tutto il sole dell’Africa, tutta l’allegria della sua gente sono stati l’elemento dominante del nostro incontro. Un braccio di ferro per entrare nella sua vita e capire che le apparenze ingannano, sempre.

Ciao...

«Guarda come sei abbronzata, sei stata in Africa?».

Macché Africa, almeno. Sono stata al mare.

«Dimmi, bella fanciulla, cosa vuoi da me? Un paio di calzini? No, ho già capito, non dire niente: vuoi un bel cd. Guarda, ho le ultimissime novità, registrate con attrezzatura di tutto rispetto su cd di marca, vedi? Cosa preferisci?».

Guarda che non sono qui per comprare...

«Ma ci sono tutti: Jovanotti, la Nannini, Ramazzotti, dimmi cosa ti piace e io te lo procuro. Se ti piace Jovanotti ho due cd, il volume uno e due. Dai, uno te lo regalo io, compra l’altro: cinque euro».

Ma non sono qui per comprare.

«Per cosa allora?».

Volevo conoscere la tua storia e scriverla sul “Cittadino”...

«Ah. E a me cosa viene in tasca?».

Ehm … niente...

«E allora perché dovrei raccontartela?».

Effettivamente è una bella domanda. Dovresti raccontarmela per far conoscere agli italiani cosa significa partire, trasferirsi qui e affrontare mille sfide prima di farcela, o non farcela, dipende. Credo che nessuno di noi ti abbia mai chiesto perché ti trovi in Italia, cosa facevi prima, cosa vuoi dalla vita...

«Hai ragione. E se poi tu scrivi quello che vuoi, mi fai dire quello che non ho detto, insomma, mi “usi” per fare colpo sui lettori? Da noi i giornalisti sono visti come “serpenti”: ne hanno tutti un po’ paura».

Ti assicuro che farò tutto il possibile per riportare fedelmente quello che mi dici. Per dimostratelo vedrai che l’articolo inizierà esattamente come il nostro incontro. Ti fidi?

«Mi fido, dai. Poi con quella faccia lì sei convincente. Fà le domande che ti rispondo. E se a qualcuna non voglio rispondere?».

Come vedi non sono armata e tu sei libero di omettere quel che non vuoi raccontare...

«Mi sei simpatica. Guarda che poi l’articolo lo leggo, quindi fà la brava. Iniziamo».

È stata l’opera di convincimento più lunga da quando scrivo questi articoli. Allora, come ti chiami?

«Mi chiamo Frank, ma preferisco che tu scriva Francesco, perché qui tutti mi chiamano così e poi a me Francesco piace, mi fa sentire italiano. Vengo dal Senegal, un Paese bellissimo ma povero. Dovresti farci un salto, ti piacerebbe. È mamma Africa, la madre di tutte le culture, della gioia di vivere. Anche se poi si fa la fame. Sono i controsensi della mia terra».

E da quanto ti trovi in Italia?

«Fammi pensare. Ormai sono cinque anni, mese più mese meno. Mese più a ben vedere, visto che ho toccato il suolo italiano in primavera e adesso siamo in estate. Cinque anni passati così, e vado avanti».

Vendendo oggetti vari per la strada?

«Esattamente. Ora mi sono specializzato nei cd, ma devo dire che è dura: la maggior parte della gente ormai scarica la musica da Internet. All’inizio si vendeva alla grande, anche su commissione; adesso si fa una fatica del diavolo per piazzare un album, e poi anche i prezzi si sono ridimensionati. C’est la vie».

Ti mantieni con questo lavoro?

«Mi mantengo; a fatica, ma mi mantengo. Tolte le spese per vitto e alloggio, qualche capo d’abbigliamento perché ci tengo e l’inevitabile cellulare, resta davvero poco, ma almeno riesco a spedire un po’ di soldi a mia moglie in Senegal. Piccole somme, che però fanno stare bene tutta la mia famiglia».

Ossia?

«Mia moglie e i miei due figli di sei e otto anni, due maschietti. Vanno a scuola e la madre mi ripete che sono bravissimi. È bello avere due figli intelligenti, perché almeno ti fanno sperare che avranno un futuro brillante, non come il mio. Io sono qui anche per loro. Anzi, forse solo per loro, perché io mi sarei accontentato della vita misera che facevo in Senegal».

Di cosa ti occupavi?

«Facevo il negoziante: abbigliamento al mercato. Mia moglie mi dava una mano con il confezionamento dei nostri vestiti tradizionali, io li proponevo. Per questo anche qui ci tengo a vestirmi bene. Ovviamente ho cambiato genere, sono molto europeo nel look».

Vedo...

«Ma tengo alto l’onore della mia cultura con gli accessori. Vedi questo anello? È un nostro portafortuna tipico. E questa collana è della mia gente. Comunque, tornando a noi, facevo il commerciante e guadagnavo abbastanza per me e mia moglie. Di certo non per i nostri due figli. Mi preoccupava pensare al futuro, ero spaventato all’idea di non poter soddisfare le loro esigenze, nemmeno le più essenziali. Così, seguendo la brillante idea di un amico, cinque anni fa mi sono messo in viaggio. La mia destinazione era l’Italia, uno stivale disegnato sulle cartine di cui a malapena avevo sentito parlare a scuola».

Dove sei arrivato?

«A Milano, in stazione Centrale, come la maggior parte dei miei connazionali. Ovviamente senza un indirizzo a cui rivolgermi e con i soldi contati. Niente albergo o camere in affitto per me».

Dove hai dormito?

«Lì, in stazione Centrale, per circa tre settimane. Ma non voglio passare per uno che non si lava e si trascura. Mi lavavo tutti i giorni, lavavo anche i vestiti, cercavo di fare il possibile per tenermi in ordine ed essere presentabile. Ma stavo male, ero tristissimo. A casa tua sei quel che sei, la gente ti conosce, ti stima, si rivolge a te con rispetto; dall’altra parte del mondo non sei nessuno. Sapevo che qui non avrei trovato le porte spalancate per me, ma vivere tre settimane in stazione no, quello non me l’aspettavo».

Cosa è successo poi?

«È successo che un connazionale a cui mi sono rivolto per caso mi ha dato una mano segnalandomi l’indirizzo di un affittacamere che poteva anche trovarmi un lavoro. Per la precisione questo. Lavoro e tetto sulla testa in due ore, così è andata. Basta accettare le regole del padrone di casa e tutto fila liscio».

Quali regole?

«Rifornirsi da chi dice lui, pagarlo puntualmente, insomma, non creare problemi. Abbastanza semplice, direi. Da allora io sono un commerciante, vengo nello stesso posto, propongo la mia merce e mi guadagno la pagnotta. Che poi io non abbia i documenti in regola e venda materiale contraffatto, questo è un altro discorso. Ma cosa posso farci? Fermati un istante e pensa: se fossi rimasto in Senegal la mia famiglia sarebbe morta di fame; con questo compromesso, invece, io faccio stare bene tutti anche se non sono propriamente a posto con la coscienza. Non farmi la morale».

Ma io non ho detto niente, stai facendo tutto tu...

«Hai ragione, è che quando ci penso un po’ mi dispiace. Sarei così felice di avere un lavoro in regola, il permesso di soggiorno e una certa stabilità economica. Magari farei anche venire qui mia moglie e i miei figli. Che bello: potrebbero studiare nelle scuole italiane e avere un futuro meraviglioso in questo Paese dove certi problemi non esistono. Purtroppo, però, la mia realtà è questa, non vale la pena sognare».

E per quanto riguarda il tuo futuro, cosa mi dici?

«Il mio futuro è uguale al mio presente, niente di speciale a meno che non vinca alla lotteria; fatto altamente improbabile, visto che non ci gioco. Quindi il mio futuro è andare avanti a vendere le mie cose, chiacchierare con gli amici, sentire la mia famiglia al telefono e sognare di tornare a casa con un gruzzolo per aprire un’attività fiorente».

Non tornerai mai in Senegal?

«Quando partirò sarà per sempre, quindi non nell’immediato. Il giorno in cui ho lasciato il Senegal mio figlio minore aveva circa un anno. Non lo vedo da allora, lui non sa nemmeno che faccia abbia. Ogni tanto ci penso, sai? Dai, cambiamo discorso».

Cambiamo discorso, ma io non ho altre domande da farti, questa era l’ultima...

«Va bene, allora ti saluto».

E io ti ringrazio...

«Tieni il cd di Jovanotti, il primo; te l’avevo promesso e te lo voglio regalare anche se non compri niente. C’è una bella canzone sull’Africa. Ascoltala, ti piacerà».

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