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Mercoledì 31 Agosto 2011
Faceva il pescatore sul lago Titicaca
«Voglio tornare in Perù per aprire un albergo, lo chiamerò “Riccardo’s”»
Riccardo faceva il pescatore in un posto incantevole che crea una suggestione meravigliosa anche semplicemente in fotografia: il lago Titicaca. Era una tradizione di famiglia, la sua, destinata a concludersi prima o poi. E il momento è arrivato: quello che per il padre, il nonno, il bisnonno e chissà quanti altri uomini prima di Riccardo era “il” lavoro, l’unico lavoro possibile, oggi è storia. Nessuno, nemmeno i due fratelli, continueranno a uscire in barca per rientrare con le reti più o meno colme di pesce a seconda della fortuna. «Si guadagnava troppo poco – ha spiegato il nostro protagonista – a fronte di grandi sacrifici. Avrei dovuto accontentarmi per tutta la vita e non offrire un futuro decente ai miei figli». E su questo Riccardo non ha voluto sentire ragione. Così otto anni fa ha preso le sue cose e si è messo in viaggio: prima verso l’Argentina, dove la sorte non gli è stata amica, poi verso l’Italia, dove già vivevano i suoi fratelli. Qui molto è cambiato: il lavoro e la stabilità economica hanno consentito a tutti i suoi cari di vivere più serenamente. Ma un’ombra resta: «Quasi ogni sera mi addormento pensando alla mia casa, in Perù. Non provo più tristezza, quella è passata da un pezzo. Ma una profonda nostalgia sì. Credo che non mi lascerà finché non sarà giunta l’ora di rifare le valigie e tornare in patria». Buongiorno, curo la pagina degli immigrati del Cittadino. Posso chiederle di dedicarmi qualche minuto per raccontarmi la sua storia? «Sì, ma dammi pure del tu, mi sa che siamo quasi coetanei». Anche secondo me. Quanti anni hai? «Trentasette. Ne compio trentotto il mese prossimo. E sono in Italia da otto. Un bel pezzo, non trovi?». Da dove vieni? «Dal Perù, e qui in Italia ho praticamente tutta la mia famiglia: i miei due fratelli e mia sorella, la più grande, nonché la prima a partire. In patria, sulle sponde peruviane del Titicaca, restano mia moglie e i miei due figli: dodici e quattordici anni, due ragazzotti che aiutano molto la madre, a quanto mi risulta». Di cosa si occupa tua moglie? «Diciamo che non ha un lavoro “ufficiale”, semplicemente valorizza e mette a frutto ciò che sa fare. Abbiamo una bella vista, davanti a casa nostra, che permette di abbracciare con lo sguardo un lago meraviglioso con un panorama che io non esito a definire il più bello del mondo. Così, abbiamo messo giù due tavoli e otto sedie. Niente insegna, niente menù. Semplicemente, grazie al passaparola degli albergatori, arrivano da noi i turisti per assaporare la nostra cucina e godere del panorama. Mia moglie fa la cuoca e i miei figli fanno i camerieri portando in tavola le pietanze». Cosa in particolare? «Quello che la terra o il lago offrono: pesce, frittate, le nostre ottime patate, verdura, un piatto di carne di lama, dipende da cosa decide mia moglie. Chi viene da noi se ne va entusiasta: vuoi per il cibo, vuoi per il cielo, vuoi per il paesaggio». Ne parli con nostalgia. «Dovresti vedere per capire. Non perché è il mio Paese, ma è una terra bellissima. Non mi stupisce, adesso che ho visto altri angoli di mondo, che la gente faccia tanti chilometri per venire da noi: ne vale la pena». Sei mai tornato a casa in questi otto anni? «Mai, nemmeno una volta. E infatti ogni tanto ringrazio la tecnologia, perché altrimenti sarei qui ad aspettare qualche lettera dai miei figli e da mia moglie. Lettera che ci metterebbe un mese ad arrivare, ovviamente, e poi un altro mese per la risposta, se non va perduta. E invece». C’è il computer. «Esatto, il computer con la webcam e skype e le telefonate a basso costo, e le foto e tutto il resto. Almeno riesco a vedere come stanno i miei figli, quanto crescono, sento la loro voce e mi sembra che siano qui con me, che basti andare nell’altra stanza per trovarli. Per i nostri antenati era diverso, tutto più difficile, più “definitivo”. Chi partiva spariva, dalla vista e spesso anche dal cuore. Ora è un altro mondo». Hai visto altri Paesi oltre all’Italia? «Sono stato un anno in Argentina, dove ho fatto il muratore. Mi illudevo che restando almeno nello stesso continente le cose sarebbero state più semplici. Intendo dire tornare a casa, riabbracciare la mia famiglia, integrarmi, trovare un lavoro e tutto il resto. Ma mi sbagliavo, ho fatto fatica sia con la ricerca di un lavoro che con le comunicazioni. Non solo». Cos’altro? «I soldi che guadagnavo non erano abbastanza; insomma, non ne valeva la pena». I tuoi fratelli erano già in Italia? «Tutti e tre, sì, ma io come ti accennavo preferivo restare più vicino a casa. Anche perché, a parte tutto, una grossa voce di costo è il viaggio. Non a caso non sono mai più tornato in Perù dal giorno della mia partenza. Qui si parla di parecchi soldi, che in questo momento non voglio e non posso spendere. Tutto quello che ho lo mando a casa per la mia famiglia. Io posso aspettare, loro no». Cosa facevi prima di partire? «Facevo il pescatore, sono un uomo che ha sempre vissuto all’aria aperta. Era un lavoro semplice, il mio, spesso faticoso, ma che amavo moltissimo. Era la nostra tradizione di famiglia, che oggi però non porta avanti più nessuno. E il motivo è semplice: se anche ti davi fare come un matto, il pesce veniva pagato una miseria dai ristoranti, una miseria davvero. Ogni tanto mi inferocivo quando vedevo sui menù esposti a quanto veniva rivenduto. Ok, bisogna considerare i costi per cucinarlo, ma fra quanto veniva dato a me e quanto veniva chiesto ai clienti c’era un abisso. Morale della favola, la mia famiglia e quelle dei miei fratelli andavano a picco». Sono rimasti in pochi a fare i pescatori? «No, non direi. Ma chi lo fa sa che deve accontentarsi, sa che non potrà mai permettersi molto di più di quello che indossa e delle casetta in cui vive. Sa che i suoi figli faranno i pescatori e non potranno mai studiare. È una scelta di vita, non sempre facile da affrontare. Ogni percorso ha un pro e un contro». Tu hai scelto. Quali sono i pro e i contro della tua decisione? «Li ho ben chiari, stampati in testa. I pro sono più denaro, la possibilità di mandare i miei figli a scuola, anche all’università se vogliono, la certezza di poter affrontare serenamente tutti gli imprevisti della vita, la tranquillità dal punto di vista economico, il potersi permettere degli sfizi, come un telefono cellulare o un paio di jeans nuovi». E i contro? «I contro sono altrettanti: il fatto di essere qui da solo senza possibilità di abbracciare la mia famiglia, di trovarmi in un Paese che non è il mio fra gente diversa da me, il non poter passeggiare sulle rive del Titicaca e non avere la mia terra negli occhi, il sentirsi in prestito, fino a quando non si sa. Solitamente chi parte fa contenti gli altri. È un po’ come se si sacrificasse per il benessere di tutti». Che lavoro fai qui in Italia? «Ho iniziato facendo il muratore, ma non mi piaceva per niente. Poi grazie a mio fratello sono stato messo in contatto con una ditta di trasporti: faccio consegne con il mio furgone e devo dire che fra mille cose che avrei potuto fare qui, questa è decisamente la migliore». Perché? «Ascolto i cd con le mie musiche, sono nel mio furgone ma mi sento fuori, ho contatti con la gente e ho anche modo di pensare, pianificare il futuro. Mi piace, davvero». Mentre guidi pianifichi il tuo futuro? Hai qualche idea? «Altroché. Mia moglie come ti dicevo è un’ottima cuoca. Abbiamo una casetta che potremmo trasformare in un piccolo albergo, se riuscissimo a ristrutturarla come si deve e ad ampliarla. Potremmo lavorarci tutti: io, mia moglie e i miei figli, se vorranno. Abbiamo la fortuna di essere nati in un posto meraviglioso, pieno di turisti. Il turismo non lo cavalchi facendo il pescatore, quello no. Ma con un albergo sarebbe tutto diverso. Io per ora sto cercando di risparmiare il più possibile: voglio aprire il “Riccardo’s”». Hai le idee chiare. «Certo, non si può pensare di vivere dall’altra parte del mondo senza un progetto per tornare a casa, ovviamente prima possibile».
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