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Mercoledì 20 Luglio 2011
Emma, un sacrificio lungo 15 anni
Torna in Russia per abbracciare marito e figlie soltanto nel mese di agosto
Emma ha 46 anni e fa la badante, ormai da quindici, per la stessa donna. Da un lato questo fa sorridere, se si pensa come un lavoro precario possa, a volte, esserlo molto meno di uno “sicuro”. Dall’altro lato fa provare un senso di amarezza, soprattutto se si considera che la protagonista delle storie di immigrati di questa settimana non vive stabilmente con la sua famiglia da tutto questo tempo: «Da quindici anni – ha spiegato sospirando Emma – vedo mio marito e le mie figlie un mese all’anno, ad agosto. Nulla di più. Solo una volta sono riuscita a portarli tutti e tre qui. Per il resto viviamo a migliaia di chilometri di distanza». Ne vale la pena? Per Emma sicuramente, anche perché con il suo lavoro, meno di mille euro al mese, è riuscita a fare laureare la figlia maggiore e ha potuto risolvere tutti i problemi economici della sua famiglia. Al punto che «quelli che una volta erano solo sogni, oggi sono realtà: penso all’automobile per mio marito, alla retta dell’università di Michela, al cellulare, i vestiti carini e soprattutto alla nostra casa, ricostruita completamente». È vero, Emma in Russia ha una casa nuova di pacca, che non lascia nemmeno il ricordo del vecchio rudere in cui abitava prima di partire. È quella casa sua, ma per ora vive in un piccolissimo appartamento con una donna anziana e malata; un appartamento buio, triste, dove le sue giornate, anzi i suoi anni, si consumano lentamente. Quanto ne valga davvero la pena, per un osservatore esterno, è da vedere. Dura la vita di chi non può scegliere. Buongiorno, avresti voglia di raccontarci la tua storia? «Sì, perché no? Ma per favore fai in modo che non sia riconoscibile: lavoro qui da quindici anni e non mi sentirei libera di parlare al pensiero che tutti possano intuire chi sono. Capisci?». Certo. In fondo noi vogliamo solo conoscere la tua storia, non riconoscere te. Puoi usare un altro nome, se preferisci... «D’accordo. Chiamami Emma: è un nome che mi piace tantissimo perché mi ricorda una mia cara amica d’infanzia». Va bene, Emma. Iniziamo dalla tua vita prima della grande decisione di emigrare... «La mia “vecchia” vita, dunque. Bene, vengo da una città russa abbastanza importante, e sono la terza figlia di una famiglia numerosa: ho cinque fratelli. Nella vita, fino praticamente al giorno della mia partenza, non ho mai conosciuto la tranquillità dal punto di vista economico. Eravamo in tanti, e le risorse erano limitate. Con il matrimonio speravo che le cose potessero cambiare, ma mi illudevo». Perché? «Perché anche se eravamo in due con due stipendi, non riuscivamo a farcela. La casa in cui vivevamo era una stamberga, credimi. Ogni due per tre c’era qualcosa che andava a pezzi, qualche intervento da fare, manutenzione continua e costosa. Mio marito faceva l’autista, io l’operaia, sopravvivevamo. Con la prima figlia, pochi anni dopo, la nostra già precaria stabilità economica ha iniziato a barcollare. Con la seconda è stato il crollo. Non sapevamo più dove sbattere la testa. Mio marito lavorava giorno e notte, io arrotondavo cucendo per il vicinato. Ma non bastava». In che senso? «Nel senso che tolte le bollette e le spese per i pasti restava poco o nulla. Le cene non erano sempre garantite, facevamo la fame. Non era vita quella, non potevo accettare che le mie figlie crescessero come me, senza speranze e senza la possibilità di sognare». Perché l’Italia? «Per puro caso, semplicemente. La zia di un’amica aveva tentato la sorte qui e ce l’aveva fatta. Rientrava in estate con le valigie piene di regali per tutti. Nel giro di pochi mesi aveva cambiato la vita della sua famiglia, considerando anche la mia amica, quindi immagina quanto successo. Io ascoltavo i suoi racconti e desideravo, sognavo per la prima volta un futuro diverso. Quel che mi mancava era il coraggio». È comprensibile... «Sai, quando valuti l’ipotesi di emigrare una piccola parte di te, piccola ma con il vocione, ti sussurra all’orecchio che forse nulla tornerà come prima. Che forse la tua vita sta prendendo una strada completamente diversa, che anche se le sentirai tutti i giorni le tue figlie saranno lontane, che prima o poi gli amici si dimenticheranno di te, che rientrare non sarà tanto facile, che le cicatrici resteranno. E questo fa paura. Bisogna lanciarsi, avventurarsi, provare con un po’ di incoscienza. Se pensi a tutto, non parti mai». E tu hai fatto questo “salto”... «Ho smesso di pensare, mettiamola così. Mi sono detta: “Emma, affronta la vita giorno per giorno, limitati a fare progetti a breve termine. Vedrai che così trovi il coraggio”. Sono partita per restare sei mesi e guadagnare il denaro necessario per rifare l’impianto elettrico della casa; risultato: sono qui da quindici anni». Sempre con progetti a breve termine? «No, non proprio. Fra i miei progetti ci sono stati la completa ristrutturazione della casa, l’università di mia figlia maggiore che ora ha una laurea in economia e commercio, l’acquisto di un’automobile per mio marito, pranzi e cene garantiti ogni giorno, e poi tante altre piccole cose utilissime per la mia famiglia e i miei fratelli. Ti dico un segreto: più di una volta ho attraversato le frontiere con i soldi nel reggiseno e nelle mutande. Ho cucito della biancheria con il “doppio fondo”. Non sono una criminale; è solo che ci tengo che alla mia famiglia non manchi nulla». Come hai fatto a trovare il lavoro? «Tramite una conoscente di Milano, la città in cui è iniziata la mia avventura. Conoscevo una signora, amica della zia della mia amica, che faceva la badante. Grazie al passaparola era venuta a sapere che nel Lodigiano cercavano una badante per una donna sola di settant’anni. Non aveva particolari esigenze dal punto di vista sanitario: io dovevo limitarmi a pulire casa, cucinare e tenerle compagnia. Quel lavoro, inutile dirlo, faceva al caso mio. Per sei mesi sono stata in prova, poi è arrivata l’assunzione». Vivi da lei? «Vivo da lei, in quella casa laggiù. Come vedi non è il massimo. Stiamo strette, io dormo sul divano, ma sono in regola e non mi posso lamentare». Sul divano da quindici anni? «Sì, ma è un divano grande, ci sto abbastanza comoda». Dicevi di aver fatto stare bene tutta la tua famiglia. Torni a casa spesso? «Torno a casa una volta all’anno, solitamente d’estate, ad agosto. Attendo il giorno della partenza per undici mesi. Ho anche un calendario dove qualche mese prima inizio a segnare il conto alla rovescia: le mie figlie mi mancano moltissimo, credimi. Quindi preparo il viaggio con cura, scelgo con calma i regali, sogno il momento in cui ci incontreremo. E il sogno non fa mai giustizia alla realtà. Ogni volta penso: “Non ricordavo che tornare a casa fosse così bello”. È per via dell’atmosfera, della gioia che provo, della magia di quel mese tanto atteso, che però vola alla velocità della luce». Posto che i tuoi progetti sono soprattutto a breve termine, non hai un’idea di cosa farai, di quando tornerai a casa definitivamente? «Me lo sono chiesta tante volte, e in più di un’occasione la risposta è stata: “Il prossimo anno”. Poi si è sempre presentato qualche imprevisto, qualche lavoro extra per la casa, che ora è totalmente nuova, qualche sogno da realizzare, spese dell’ultimo minuto. Insomma, so per certo che questa parentesi della mia vita non finirà il prossimo anno. Finirà con il mio lavoro». Ossia? «La signora che assisto ormai è molto anziana. In tutto questo tempo mi sono affezionata, quindi starò con lei fino alla fine, glielo devo. Poi, quando non ci sarà più, metterò le mie cose in una valigia e tornerò in Russia. Sarà la fine di un’esperienza e l’inizio di una nuova vita. Ricucirò il rapporto con le mie figlie, vivrò nuovamente sotto lo stesso tetto con mio marito, frequenterò i vecchi luoghi, tornerò alle mie abitudini. Sai, una parte di me non vede l’ora, l’altra ha paura. Sarà un altro salto nel vuoto, un altro capitolo da scrivere. Speriamo bene».
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