Alan vende rose ma vorrebbe aprire un’autofficina. È proprio questo suo sogno la leva, la forza che l’ha spinto a lasciare il Bangladesh e trasferirsi in Italia. Niente di fatto, partita persa. Alan è rimasto sconfitto da questa vita che non gli ha dato una possibilità. La sua è una storia con il finale aperto ma amaro, che contrasta con la sua espressione simpatica e una certa dolcezza nei modi.Trentacinque anni e una biciletta scarcassata per muoversi in città, il nostro protagonista ha smesso di credere che l’Italia possa offrirgli una chance. Metterà da parte il denaro necessario e tornerà a casa, senza alcuna nostalgia della sua esistenza in questo angolo di mondo. «Volete una rosa?».No grazie. «Ma dai, almeno una. Eh?».No, davvero, grazie.«Costano poco, stasera prezzo speciale».
No, non mi servono rose.«Va bene, buona serata. Ciao».No, aspetta, aspetta un attimo. Facciamo uno scambio: io ti compro una rosa e tu mi racconti la tua storia. Che ne dici?«Cosa?».Vorrei che mi raccontassi la tua storia. Io in cambio ti compro una rosa.«Se a te sta bene, io non ho problemi».Questa bianca va benissimo. «Ok, ma perché vuoi conoscere la mia storia?».È per la pagina degli immigrati del Cittadino.«Ah. Ma sì, ci sto, che problema c’è?».Quante rose hai venduto finora?«Con la tua fanno sette. Considerato che sono le dieci di sera non ho molte altre possibilità».Non è il massimo.«Verissimo. Ma come vedi non c’è tanta gente in giro. Ho fatto passare praticamente tutti i bar e i ristoranti del centro, e non solo. Il risultato non è esaltante, ma è così che vanno le cose; devo rassegnarmi».Da dove vieni?«Dal Bangladesh».Un lungo viaggio, per vendere fiori.«No, un lungo viaggio per realizzare un sogno».Davvero?«Sì. Volevo aprire un’autofficina nel mio Paese, ma non avevo abbastanza denaro. Conosco il mestiere, perché è da quando ho quindici anni che riparo auto per un lontano parente. L’esperienza ce l’avevo, il giusto spirito pure; mi mancavano solo i soldi. Mio zio mi pagava saltuariamente, senza riconoscermi tutto il lavoro che facevo. Per vent’anni sono stato alle sue dipendenze, poi un giorno mi sono detto: “Alan, o prendi in mano la tua vita, o muori così, povero in canna”. Il problema era che io non sapevo fare altro, a parte il meccanico».Speravi di farlo qui?«Sinceramente sì, ma sapevo di avere pochissime possibilità. Mi sembrava più probabile trovare lavoro come operaio in qualche azienda o in qualche cascina. Ho degli amici che hanno cambiato le loro sorti in questo modo».Come, scusa?«Emigrando e trovando un lavoro qui in Italia. Partivano con nulla in mano e tornavano con la possibilità di comprare casa da noi, aprire un negozio e far stare bene tutta la famiglia. Capisci cosa intendo?».Sì, ho sentito tante storie a lieto fine. Ma ne conosco anche tante altre decisamente tristi.«A me è toccata questa seconda chance. Arrivo quattro anni fa con un volo intercontinentale, chiamo un amico che vive a Milano e inizio questa avventura. Il mio amico fa il muratore, ha un “posto fisso” e se la passa abbastanza bene. La casa che ha affittato viene subaffittata ad altri tre connazionali. Io sono l’ospite non pagante, se vogliamo metterla così. Morale della favola, siamo in cinque in un appartamento – e intanto lui arrotonda, ma questa è un’altra storia. Su cinque due hanno un lavoro decente, ossia il mio amico e un venticinquenne che fa l’imbianchino, mentre altri due non se la passano bene. Io sto a guardare e mi chiedo da che parte penderà la mia bilancia».Se per la buona o la cattiva sorte?«Molto più banalmente se per un lavoro serio o uno non serio. Non ti ho detto che per il viaggio avevo speso tutti mi miei soldi e avevo anche chiesto un prestito. Lasciamo stare che è meglio».A chi avevi chiesto un prestito?«Diciamo a un amico che però li avrebbe rivoluti indietro tutti, e anche di più, e soprattutto in tempi brevi. Capisci?».Capisco.«Ecco. Dove eravamo?».Alla bilancia.«Ah, sì, giusto. Bene. Mi metto in marcia, mi faccio in quattro e inizio a chiedere praticamente al mondo intero se qualcuno ha bisogno di me. “So fare il meccanico, ma posso imparare tutto”; credo di aver ripetuto questa frase almeno mille volte. Niente».Peccato.«Lo dici a me? Intanto i mesi passano e io sono improduttivo. Le giornate sembrano lunghissime, sento una cappa di oppressione addosso che mi divora. Insomma, la situazione si fa insostenibile. Capisci?».Sì.«Allora chiedo aiuto ai miei compagni scalcinati, quelli che vivono col lavoro di strada, con le collane, con i fiori. Ho scelto i fiori».Perché?«Pensavo vendessero di più. Uno ha sempre bisogno di un fiore: per una compagna, per la madre, per un’occasione speciale. Costano poco, sono belli, fanno piacere. Ma non ti fanno campare. Almeno non in modo dignitoso. Ci sono periodi buoni – e posizioni buone – e periodi di magra. L’estate non è mai il massimo».Ma riesci a pagare l’affitto e le spese?«Almeno ci provo. Di certo in tasca, a conti fatti, non mi resta più nulla. Sono riuscito a comprare questa bicicletta, vedi? Almeno mi muovo più velocemente».Ma tu vivi sempre a Milano?«Sì. Lego la bici in stazione a Lodi e vado e torno in treno. Poi però qui almeno posso muovermi velocemente e far passare tutte le vie e le attività, non solo del centro».Hai pagato il debito?«L’ho chiuso lo scorso anno. Adesso sto cercando di mettere da parte un po’ di soldi per tornare a casa. Ci vorrà un’eternità».E cosa farai in Bangladesh?«Busserò alla porta di mio zio. Spero abbia ancora un posticino per me, tanto mi paga talmente poco che credo non solleverà questioni».E il tuo sogno?«Chissà? Magari lo realizzerò in un’altra vita, certo non in questa».Grazie. Come posso chiamarti?«Alan, chiamami Alan. Quest’altra rosa te la regalo: omaggio della casa».
© RIPRODUZIONE RISERVATA