Alì, dell’Egitto: «Vivrò per sempre in Italia»

«Prima o poi la gente si sarebbe mobilitata per scacciare Mubarak»

Alì ha barba e sopracciglia perfettamente curate: sembra quasi che qualcuno le abbia disegnate con un pennello. Indossa una felpa blu con il cappuccio calato sulla testa, un giubbotto di pelle aperto e aspetta i suoi amici fuori da un bar di via Lodino a Lodi. Alla domanda, decisamente giustificata, «Sei italiano?» Alì risponde «Dimmi pure». Da dove viene poco importa, forse perché ormai Alì ha deciso: sarà sempre un egiziano, certo, ma la sua vita si svolgerà qui. Su questo non c’è dubbio.

La cosa strana è che nonostante siano passati ben cinque anni dal giorno del suo arrivo a Roma («All’inizio ho fatto il turista, per vedere se questo Paese mi piaceva»), Alì fa molta fatica a parlare la nostra lingua: conosce un numero limitatissimo di parole, che cerca di utilizzare per ogni occasione. A riprova di come, anche nel suo caso, l’integrazione sia ancora una meta lontana. Non basta il lavoro, non basta vivere in una città a contatto con gli italiani, non basta acquistare nei “nostri” negozi, indossare i “nostri” jeans e seguire la moda italiana. Non basta nemmeno la giovane età – ventiquattro anni per Alì – a rendere tutto più facile.

Integrarsi significa passare attraverso un impalpabile velo che in alcuni casi, troppi, si rivela un muro. Alì vivrà sempre qui, rimanendo di fatto in una succursale del suo Egitto.

Buongiorno, è italiano?

«Dimmi pure».

Vedo che possiamo darci del tu. Io scrivo ogni settimana la storia di una persona straniera. Saresti disposto a dedicarmi qualche minuto per raccontarmi la tua?

«Perché no? Chiedimi quello che vuoi e io ti rispondo».

Direi che la prima domanda è la più “tradizionale”: perché sei partito?

«Se vuoi la nuda verità, sono partito perché mi ero stufato dell’Egitto. Sì, proprio stufato. Lavoravo in campagna, nell’azienda agricola della mia famiglia. Non farti strane idee: non abbiamo distese sterminate di terreno e interi capannoni di bestiame come vedo qui in zona. Più semplicemente, disponiamo di un piccolo appezzamento da coltivare e qualche animale (mucche, galline e capre) da allevare. Niente di che, ma bastava per tutti noi».

Quanti?

«Sette persone: io, mia mamma, mio papà, le mie due sorelle e i miei due fratelli. Sono l’unico a essere partito e il resto della mia famiglia vive ancora grazie all’attività in cascina. Quindi non è che me ne sono andato per problemi economici, avrei potuto tirare avanti anche in Egitto. Più semplicemente, volevo provare qualcosa di nuovo, mettermi in gioco».

E perché l’Italia?

«Perché molti miei amici avevano parlato del vostro Paese con toni entusiasti. L’Italia di qua, l’Italia di là, c’è tanto lavoro, la gente è per bene, basta comportarsi correttamente e non ci sono problemi, si guadagna parecchio, si possono comprare tanti prodotti, le città sono pulite. Le solite cose, no? E io mi trovavo in un angolo d’Egitto lontano da tutte queste allettanti e invitanti prospettive. Un giorno mi sono detto: “Alì, prova, perché no?”, e ho provato».

Cosa vuol dire “ho provato”?

«Vuol dire che non avendo bisogno di soldi non ho dovuto fare un viaggio della speranza, trasferirmi qui e augurarmi che tutto andasse bene perché altrimenti non avrei avuto i soldi per tornarmene a casa. Nossignore. Io avevo ben altre possibilità».

Ossia?

«Partire con un volo aereo, fare un bel viaggio in Italia, da turista, e poi valutare. Cosa avevo da perdere? Nella peggiore delle ipotesi, mi sarei fatto una bella vacanza e poi sarei tornato a casa mia, con un’esperienza in più».

Sei partito da solo?

«Certo. Sono arrivato a Roma, dove mi sono fermato per una settimana abbondante. Ho dormito in albergo, ho visitato la città e poi mi sono trasferito in Sicilia, da un amico. Roma è veramente incantevole; mi ha lasciato di sasso. In Sicilia invece mi sono fermato per pochissimo tempo: tre giorni soltanto. Giusto il necessario per prendere i contatti con un ragazzo che mi ha poi indirizzato al nord».

Andavi di fretta?

«Guarda, sarò sincero; fin dal momento dello sbarco dall’aereo non ho avuto dubbi: il vostro Paese mi è piaciuto moltissimo e avrei voluto fermarmi qui per sempre. Per questo non ho perso tempo in Sicilia e mi sono fatto dare immediatamente i riferimenti per lavorare qui al nord: volevo iniziare la mia nuova vita prima possibile».

Come ti sei organizzato?

«Molto semplicemente ho preso il treno e sono andato a vivere per qualche giorno in albergo. Poi ho incontrato quelli che sarebbero diventati i miei nuovi amici e mi sono trasferito da loro: a Sant’Angelo Lodigiano, a Piacenza, a Crema e adesso a Lodi. Fra connazionali ci si aiuta moltissimo, più all’estero che in patria. Di qualunque cosa io abbia bisogno, so che posso contare sui miei amici egiziani. Qui non mi sento mai solo, mai. Per questo vivo con grande serenità».

E il lavoro?

«Anche il lavoro non si è fatto attendere. Quando entri nella giusta rete di conoscenze sei sistemato sotto ogni punto di vista. Tramite i miei connazionali ho avuto la possibilità di fare il muratore. Ho dovuto imparare tutto da zero, ma non è difficile: me la cavo e mi trovo anche bene con le persone con cui lavoro. Non ho preoccupazioni, posso comprarmi tutto ciò che mi piace, posso spedire qualche euro a casa e sono contento».

A proposito di casa, come vivi questa fase storica del tuo Paese?

«Ascolto le notizie con curiosità, guardo le immagini al telegiornale e mi esce di bocca un solo commento».

Quale?

«Era ora. Sono trent’anni che questa famiglia si mangia tutte le ricchezza del Paese, che la gente non ha speranze, magari muore di fame per strada e loro avanti, senza pensieri, sulle spalle degli altri. Era ora davvero. Sapevamo tutti che prima o poi sarebbe successo, che la gente si sarebbe mobilitata in massa per scacciare Mubarak. Il dubbio era quando».

Non sei preoccupato per la tua famiglia?

«No perché vivono in campagna e sono ben lontani dal caos del Cairo. Non ho nessuna preoccupazione per l’incolumità della mia famiglia; spero solo che questa vicenda finisca presto e nel migliore dei modi».

A distanza di cinque anni dal tuo arrivo, cosa pensi della tua scelta di emigrare?

«In tutta franchezza ti rispondo che sono contentissimo. Non ho avuto dubbi all’inizio e non ne ho nemmeno adesso. Sono molti i motivi per cui sono soddisfatto. Innanzitutto il mio lavoro è ben pagato. È faticoso e pesante, ma alla fine del mese lo stipendio mi dà soddisfazione. In secondo luogo ho uno stile di vita che mi piace: posso comprare tutto ciò di cui ho bisogno, ho tanti amici, una bella vita sociale, mi diverto, sto bene. Cosa potrei desiderare di più? Infine, vado d’accordo anche con gli italiani».

Hai amici italiani?

«No, amici no. Con gli italiani parlo solo per lavoro o per acquisti, per l’affitto, insomma, per le incombenze quotidiane. Non è amicizia quella. Ma sento di essere rispettato: nessuno mi guarda male, nessuno mi tratta male. D’altronde me l’avevano detto: basta comportarsi bene e non ci sono problemi. Verissimo, lo vivo ogni giorno sulla mia pelle».

In tutto questo tempo non sei mai tornato a casa?

«Un paio di volte d’estate. Mia mamma non fa che ripetermi di restare, quando torno; ma io non ne ho la benché minima intenzione. Restare per fare cosa? Sgobbare come un matto per sopravvivere? No, qui è più facile e io indietro non ci torno. L’Egitto mi piace per le vacanze, l’Italia per viverci».

Cosa vedi nel tuo futuro?

«Vedo la vita che sto facendo, la vita che mi piace, andare avanti normalmente: il lavoro, gli amici, le solite cose. Prima o poi dovrò anche sposarmi, lo so. Ma c’è tempo. Una ragazza ce l’ho già: è in Egitto che mi aspetta. Ci conosciamo da quando siamo piccoli e da allora sappiamo che un giorno ci sposeremo. In questo momento non ci penso, ma so che prima o poi accadrà».

Verrà in Italia anche lei?

«Certo. Abiteremo qui e questa sarà la nostra vita. Perfetto, no?».

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