Maria ha quarantatre anni e porta le trecce come le boliviane delle fotografie: lunghissime, nere, lucide come fili di seta. È una donna minuta, poco propensa a sorridere, ma con due occhi profondi e intensi che riescono a mettere a disagio.
Ci ha raccontato la sua storia quasi chiedendoci conferma della validità della sua scelta. Sono dieci anni che Maria vive in Italia e con i soldi che qui ha guadagnato ha praticamente realizzato i sogni di tutta la sua famiglia. Ma purtroppo per il figlio minore è solo «una voce al telefono e un volto su un monitor».
Allora, Maria, me la racconta la sua storia?
«Ma sì, gliela racconto. È una storia normalissima, la mia. È la storia della mia famiglia: gente semplice senza grilli per la testa. Gente di El Alto».
El Alto?
«La parte alta della città di La Paz, in Bolivia. Siamo a quattromila metri, ed El Alto è, oltre alla zona più alta della capitale, anche la meno ricca. Non a tutti piace, ma per me è casa. Dovresti vederla: sembra di toccare il cielo con le dita. Qui invece è così lontano».
Va bene se ti do del tu?
«Certo».
Perfetto. Che lavoro facevi a El Alto?
«Aiutavo mia mamma con il mercato. Te l’ho detto che siamo gente semplice. Commerciamo patate. Parlo al presente perché mia mamma fa ancora quella vita».
Che tipo di vita è?
«Abbastanza dura, forse troppo. Ha uno spazio dove può esporre le patate che coltiviamo. Le porta in spalla se sono poche o con la carriola se il raccolto è stato buono. Poi le stende per terra su un telo di tessuto tipico boliviano, che usiamo anche per trasportare i bambini. Oppure impila qualche cassa recuperata e allora ha una sorta di banchetto. Sue giù per la città vendendo patate e cipolle, questa è la vita della mia famiglia da moltissime generazioni».
E tu?
«E io non potevo pensare di invecchiare così, anche perché il mercato non ti permette di realizzare i sogni dei tuoi figli. Se ci pensi, pagare l’università con le patate non è impresa facile, così come mandare avanti una famiglia di sei persone».
Tuo marito non ha un lavoro?
«Sì, fa il cameriere in un albergo. È anche lui di El Alto. Il lavoro ce l’ha, ma lo stipendio è davvero misero. Non avevamo molta scelta. E quindi eccomi qui».
Da quanti anni ti trovi in Italia?
«Sono una decina, abbondante: quasi undici. E in tutto questo tempo sono tornata a casa solo quattro volte: è un viaggio molto lungo e soprattutto molto costoso. Ma almeno so che questa scelta potrebbe cambiare le sorti dei miei figli: i due maggiori, ventuno e ventitre, anni frequentano l’università. Mia figlia, che ha sedici anni, sta ottenendo ottimi risultati al liceo, mentre il più piccino, tredici anni, potrà decidere di fare quel che vuole del suo futuro. Io sarò con lui e lo aiuterò».
Aveva solo tre anni quando sei partita.
«Tocchi un bel tasto dolente. Sì, aveva solo tre anni. E io per lui sono stata soprattutto una voce al telefono e una faccia nel computer. Lo so e soffro moltissimo per questo. Ma è un sacrificio che ho - anzi che abbiamo tutti - dovuto affrontare per poterci permettere un futuro migliore. Mio figlio non ha avuto una mamma accanto, ma almeno non dovrà emigrare chissà dove e potrà costruire la sua vita da un punto di partenza decisamente superiore rispetto a quello di tutti noi».
Chi ha curato i tuoi figli?
«Sono stati con il padre e la mia famiglia, che abita nella porta accanto. Sono dei bravi ragazzi, tutti, e non si sono sentiti mai soli o «abbandonati. Scusa se mi commuovo».
Ti capisco. Pensiamo ad altro e spostiamoci qui, in Italia. Perché proprio l’Italia?
«Ho banalmente seguito le orme di un’amica, una vicina di casa. A volte basta affidarsi al passaparola. Poteva aiutarmi, soprattutto all’inizio, e non perdeva occasione per ripetermi che in Italia il lavoro c’era. Parlo al passato, perché adesso non è più così».
Tu adesso hai un lavoro, giusto?
«Ho trovato un posto da badante due settimane dopo il mio arrivo e da quel giorno sono sempre stata “operativa”. Posso dire di fare la badante da più di dieci anni, anche se ho seguito due signore soltanto. Una per più di sei anni. Poi, quando la famiglia ha deciso di trasferirla in casa di riposo, ho immediatamente incontrato la famiglia per cui lavoro adesso. La mia “nonna” ha ottantotto anni, ma dovresti vedere com’è in gamba».
Ti piace il tuo lavoro?
«Non mi dispiace per niente, anzi. Il grande vantaggio è che ho un tetto sulla testa senza dovermi preoccupare di pagare l’affitto; inoltre seguo una persona cordiale e non particolarmente impegnativa, e questo è impagabile. Ho delle amiche che si occupano di persone malate di Alzheimer; lì sì che è dura davvero. La mia nonna, cui ormai sono legata un po’ come se fosse davvero “mia”, ha solo bisogno di una mano con i mestieri e la cucina, oltre che di un paio d’occhi che la aiutino a leggere e che la controllino la notte. Per il resto è completamente autonoma. Inoltre ho anche dei vicini meravigliosi».
Davvero?
«Certo. Sai cos’hanno fatto? È una banalità, ma ti dà idea delle persone che sono: quando hanno saputo che io uso il computer per parlare con la mia famiglia e che tutte le volte dovevo uscire a orari improbabili per andare in un phone center e mettermi in contatto con i miei cari, mi hanno regalato il vecchio computer del figlio e mi hanno fornito una password per usare il loro wi-fi. Così io posso contattare i miei in qualsiasi momento. Questo mi fa sentire meno lontana».
Sono stati carini.
«Ho incontrato molte persone carine qui, ed è stata la mia fortuna, perché altrimenti non so come avrei fatto. A volte la nostalgia è tagliente come la lama di un coltello, credimi».
Ci credo.
«Ci sono delle notti - chissà perché succede sempre di notte? - in cui mi sveglio e mi sembra di impazzire. «Hai sbagliato tutto - mi dico -, non dovevi partire, non dovevi stare tanto lontana da casa. Tu adesso non hai più una famiglia». Poi al mattino mi passa, ma quanto dolore».
Sapevi che saresti rimasta lontano da casa per così tanto tempo?
«No, non lo sapevo. Altrimenti il giorno della partenza sarei impazzita. «Uno o due anni» era l’accordo con mio marito. Poi entrambi abbiamo notato quante opportunità erano nascoste nella mia partenza. Ancora un anno, poi un altro, poi un altro ancora e sono diventati più di dieci».
Cosa hai fatto con i tuoi guadagni?
«Mille cose, davvero: ho ristrutturato la mia casa e quella di mia mamma, ho iscritto due figli all’università e mandato mia figlia alle superiori; inoltre ho da parte un po’ di denaro per la vecchiaia mia e di mio marito, visto che da noi la pensione è un miraggio. Adesso sto risparmiando per mio figlio».
L’ultima tappa?
«Più o meno sì. Diciamo l’ultima preoccupazione. Non so cosa sarà di me quando la mia nonna non ci sarà più. Non so se troverò un lavoro abbastanza velocemente o se al contrario dovrò ritornare a casa. Alcune mie amiche hanno dovuto fare i bagagli. Se dovesse capitare anche a me, vorrei almeno aver messo da parte abbastanza risparmi per permettere a mio figlio minore di frequentare l’università. Avrei fatto abbastanza per tutti, che ne dici?».
Altroché. Avresti fatto moltissimo per tutti. Anzi, l’hai già fatto.
«Grazie. Ogni tanto mi fa piacere sentirmelo dire. Significa che non ho buttato via una parte della mia vita».
Grazie Maria. Buona fortuna.
«Grazie a te. Mi ha fatto piacere questa chiacchierata».
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