Non è il signor Spinola che deve vergognarsi dei debiti

Egregio direttore, il signor Sergio Spinola non deve vergognarsi di morire così, con alcuni debiti verso i suoi fornitori che non riuscirà ad onorare, come ha scritto nella lettera pubblicata il 30 aprile. Chi nella sua vita ha lavorato sodo per assicurare dignità a se stesso e ai suoi famigliari non merita di realizzare certi pensieri. La crisi economica con la quale il mondo di oggi ha a che fare sta scoprendo nervi sensibili e le terapie adottate dai governi spesso hanno l’aspetto di cure palliative: il malato è moribondo, ritardiamone il più possibile il decesso. La crisi viene subita, non aggredita. Il guaio è che il malato non è il sistema, come recita la cantilena che ci accompagna, ma è lo stato stesso che non accettando la propria situazione di infermo, si accanisce sui contribuenti. A ciò si aggiunge il fatto che nazioni europee come l’Italia debbano intraprendere strade dettate da un apparato centrale, l’Unione europea, alla quale sono stati delegati poteri e funzioni. La democrazia per come siamo abituati a conoscerla vive una fase di sospensione, non solo per la presenza di esecutivi tecnici, ma per il meccanismo che si è messo in moto: Berlino detta condizioni ad Atene, Madrid e Roma e queste eseguono. È la legge del più forte che ha una sua logica scarna e che politicamente è rilevante. Non è quindi il signor Spinola a vergognarsi di morire così, con i debiti che non riuscirà a pagare. È lo stato che ha invaso la vita privata dei cittadini e che anziché limitarsi a ben amministrare, si è attribuito il compito di controllare e, per l’appunto, governare, restringendo sempre più le sfere della libertà individuale. Tra accertamenti fiscali, macchine della Guardia di finanzia che pattugliano le strade, redditometri e quella spiccata voglia di limitare l’uso del contante di cui si stanno facendo promotori alcuni volti giornalistici, è il caso di concludere che lo spirito libero di George Orwell, nel partorire l’immagine del Grande Fratello con il romanzo “1984”, aveva visto lungo. Non è uno show televisivo, è culturale. Ci è stato insegnato che lo stato avrebbe provveduto a tutto, instillando una invasiva retorica per cui è chi ha svolto il suo dovere che si sente nell’obbligo di chiedere scusa, quando attorno le cose non funzionano per de meriti che non lo riguardano. La classe politica e manageriale suggerisce competitività e liberalizzazioni, regolamentando: un ossimoro che genera mostri, come possono esserlo i partiti agli occhi dell’opinione pubblica, mentre si discute dell’antipolitica. L’Italia è stata lottizzata, era impensabile immaginare che le conseguenze non sarebbero venute a galla. E chi cavalca l’onda dell’indignazione non offre ricette diverse se non quelle che prevedono un ulteriore rafforzamento dello stato e, implicitamente, di una politica già pronta a regolamentare ulteriormente. L’individuo è soggetto a doveri, com’è giusto che sia - tipo non intromettersi boriosamente negli affari di altri individui. Ma gli dovrebbero essere garantiti dei diritti, il primo dei quali dovrebbe essere quello che gli assicura di essere libero, intraprendente e felice. Purtroppo i controsensi lo negano: l’Italia è un paese dove la destra è “sociale”, i “liberali” erano gli agrari, l’intellighentia paracomunista, dove gli iscritti al sindacato dei lavoratori sono per il 50% pensionati, dove due regioni reggono la spesa di venti, dove le forze di polizia sono il triplo che in Russia, ma in certe aree se si prova solo ad accatastare le case, sparano.Il signor Spinola, aprendo la sua lettera, citava l’articolo 1 della costituzione: l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro. Chi stese il documento, per onestà, avrebbe dovuto aggiungere: a scapito di chi lavora e offre lavoro e a favore di chi s’ingrassa. Lo sanno bene gli accademici di Palazzo Chigi. No, non è il signor Spinola a doversi vergognare. Distinti saluti,

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