La speranzosa ricerca di cose semplici di Tino Porchera

Costante Porchera, moltissimi scoprono anzitempo che la mamma l’ha chiamato così, e non Tino come gli amici (molti), è uno di quelli con il sorriso disegnato sui lineamenti. Nella commozione, nella pioggia di ricordi in camera ardente, lui non ha cambiato di molto l’espressione: una battuta per tutti, sempre, perché per Tino l’osteria era la vita, e la vita far l’oste. E chi ristora, per mestiere e per vocazione, non può permettersi, diciamo come l’avrebbe detto lui, d’essere malmustus. Se ne va, prematuramente sì, ma con il sollievo di chi ha vissuto pensando di notte e lavorando di giorno, risparmiandosi ben poco, l’ultimo dei tre moschettieri di «Polenta e jazz». Solo a scriverlo, è bello. Polenta e jazz. La bassa mista con l’ottone, la tradizione di qua con la tradizione di là. Sono venuti nomi piccoli e nomi grossi, serate riuscite e serate in famiglia. Tante, certo, da quando, ormai nella notte dei tempi, c’erano ancora gli altri due sodali dell’avventura: Martino Ledronio e Marco Madonini. Polenta e jazz, nei giovedì sera d’autunno (stagione di casa, a Corte Palasio), è stata una trovata accorta, una formula unica, una ricetta antica. Ha fatto girare le persone, in un paese, l’Italia, di persone abituate agli stessi posti, con gravi difficoltà di uscita dal seminato. Andare in campagna da Lodi, guai! Da Milano? Rob de mat. Tino ci è riuscito, più volte, e in più notti la piazzetta di Terraverde è stata, al gelo fin quasi l’alba, un crocevia di chiacchiere, sigarette, chitarre fino all’ultimo e storie.A volte non si tratta di essere visionari, solo di non impigrirsi e impolverarsi sulla routine. Tino non si è mai seduto, e anzi fino all’ultimo, ci si inalberava sull’ostruzionismo ipersanitario, ottuso e costosissimo (in termini di cultura ed economia locale, quindi reale), nei confronti dei prodotti della terra, venuti veramente dalla porta accanto, dal bocchirale in faccia al bancone, dalla sciura con le galline a trecento metri. Lui prima di aprirne una aveva viaggiato e conosciuto le osterie fuoriporta di queste lande nebbiose, sapeva come cucinavano i donnoni di campagna, sapeva anche che quel mondo oggi è scomparso, ci sono regole e normative, però «che bello quando nessuno ti diceva quante mattonelle mettere in cucina e le cose avevano un sapore». Dietro Polenta e Jazz ci sono tante cose: il lavoro di una squadra (cuochi, inservienti, tecnici), ma anche la speranzosa ricerca di cose semplici: note, vino, ritrovarsi, parlare. Semmai, cantare.

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