Il medico non ha mai domandato come stava mia madre

Mia mamma aveva 91 anni quando è morta. Ed è un’età che le dava il diritto di morire. E di morire senza dolore, come l’attenzione e la dedizione dell’unità di terapia antalgica e di cure palliative dell’ospedale di Lodi le ha consentito. E anche di entrare per un poco in un mondo tutto suo, fatto di ombre diffuse e di qualche rara luce, uno sguardo liquido (quello sguardo liquido) che hanno i vecchi quando sanno di andar via. Mia mamma aveva anche un medico di base, che per almeno vent’anni ne ha conosciuto, sempre un poco di sfuggita, per la verità, le malinconie, e l’ipocondria vaga che spesso ci accompagna. E questo medico, che abita a pochi metri, 35 o poco meno, da casa di mia mamma e dalla mia - chi sa?- forse dimentico di un giuramento fatto tanto tempo prima, non ha mai pensato di chiedere a me o a qualcuno della nostra famiglia come stesse quella anziana signora che da troppo tempo non gli chiedeva più le solite medicine per il solito male che forse era appena solitudine.

Neppure in occasione dei quotidiani incontri per il giretto dei rispettivi cani, né in occasione della diligente raccolta differenziata di cui sovente condividevo gli orari con la moglie, anche ella stimato medico di base, sempre troppo presa dal separare, con attento ordine, le carte qui, la stagnola là, per rivolgere un pensiero alla sua vecchia paziente.

Mai una parola, mai un gesto, mai una domanda furtiva: “Come va la mamma?”.

Forse per il timore di sentirsi rivolgere un invito - o una preghiera, anche - come capita quando ti trovi davanti al mistero della malattia e della morte che ti sta, anche se a buon diritto, portando via quella anziana signora che è (era) comunque la tua mamma.

E allora, ecco il nostro medico di base allontanarsi veloce, via, tirando a guinzaglio corto un cane troppo vivace, oppure mostrando grande concentrazione nel separare, ancora, quella carta da quella stagnola.

E allora, grazie a Giovanni Fazzi, amico, medico vero e Sindaco di Merlino che in qualunque momento, i più bui, ha trovato il tempo e il modo di imbrogliare l’anziana signora sulla natura del male che ne aveva definitivamente fiaccato la capacità di interrogarsi sulla vanità dei giorni che passano e sulla bellezza del violino di Uto Ughi.

E allora grazie di nuovo a tutto il personale medico e paramedico delle cure palliative, a cu, il costante confronto con l’ineluttabilità del dolore ha accresciuto la capacità di ascolto e la sensibilità di una risposta, a qualunque ora, anche in pomeriggio domenicale.

E grazie al direttore del «Cittadino» che ha permesso queste confessioni sommesse di una figlia troppo cresciuta.

E adesso vado, di corsa, non vorrei arrivare in ritardo agli uffici dell’Asl.

Devo cambiare il medico di base.

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