Il futuro si chiama differenziare

Il capitalismo in Italia sta cambiando pelle, e sta cambiando pure i capitalisti. In alcuni casi si sta focalizzando sul business d’origine, lasciando perdere gli altri terreni sondati in questi anni. In altri casi sta lasciando invece i business tradizionali, quelli storici, per crescere in altri settori. Così da immaginarci Benetton come sinonimo di maglioncini, quando il tessile ormai è un’attività secondaria per un gruppo che invece governa una bella fetta delle nostre autostrade, gestisce Autogrill e Aeroporti di Roma e Firenze, sta in Grandi Stazioni e ha vaste proprietà agricole sparpagliate tra Italia e Argentina. Ma è soprattutto vero il contrario, la ri-focalizzazione nel business d’origine. Così Pirelli ha smesso di occuparsi di mattone per concentrarsi sul pneumatico, del quale ora è tra i leader mondiali; così gli azionisti Agnelli stanno pian piano arretrando nelle varie diversificazioni degli ultimi anni, per investire ancora nell’auto e nell’editoria; così il mondo finanziario-assicurativo delle coop “rosse” si è concentrato sulle polizze, abbandonando altri sogni. Così anche il variegato mondo finanziario-industriale messo in piedi dalla famiglia De Benedetti ha registrato grandi successi, ma anche qualche grossa delusione: muoversi su più fronti è difficile ovunque, non solo in Italia.Per tutti, vecchi e nuovi, piccoli e grandi, specialisti e diversificatori, esistono due grandi macigni che ne condizionano la funzionalità e il futuro. Il primo è la finanza. Il mercato dei capitali italiano – la Borsa di Milano – è robetta. Quotarsi qui è quasi un limitarsi gli orizzonti, e chi ha grandi ambizioni ormai guarda al mondo. Le banche poi sono in enorme difficoltà strutturale, costrette a patrimonializzarsi e quindi a tenersi stretti i soldi, ma anche a non rischiare per la fragilità dei propri conti. Le regole europee non aiutano per niente; il peso italiano nell’Europa che regola è un peso piuma. Mancano infine strumenti intermedi – i fondi, il venture capital – se non quelli stranieri. Qualche speranza può venire dai mini-bond, cioè dallo sbloccare il mercato obbligazionario avvicinandolo alle esigenze delle imprese. Vediamo come andrà, siamo solo all’inizio.L’altra spada di Damocle che sovrasta la testa della quasi totalità dell’imprenditoria italiana ha caratteri genetici. L’individualismo italiano è sempre stato un motore fortissimo di sviluppo, si basa sulla genialità o l’intuizione del singolo, sulla sua bravura o talento. Le aziende hanno spesso il nome del fondatore: Ferrari, Barilla, Ferrero, Caltagirone, Armani… Ma poi? Come si fa il salto di qualità quando il grosso sta sulle spalle del singolo? Come pensare che la discendenza abbia le caratteristiche di genio e abnegazione della prima generazione? Si diceva un tempo: la prima generazione crea, la seconda mantiene, la terza sciupa tutto. La crisi di questi anni ha accelerato la dinamica generazionale: spesso i figli stanno vendendo o liquidando quello che i padri avevano costruito. Meglio campare di rendita che perire di errori gestionali. Un fenomeno che ha colpito soprattutto al Nord le piccole aziende sorte col boom economico e che hanno fatto la fortuna della famiglia imprenditrice. I cui figli, però, preferiscono sbaraccare o vendere, investendo nel mattone, nei Bot o scialacquando. Così che cessano attività che sembravano consolidate, mentre faticano a nascere i nuovi capitani coraggiosi.Pertanto, al contrario di famiglie come Benetton o Perfetti (caramelle) che si sono affidate ad un management di primo livello, tantissimi altri hanno venduto soprattutto a francesi, tedeschi, svizzeri, financo spagnoli, americani e arabi. I cinesi no, sbavano per entrare nel nostro mercato ma non lo capiscono. Le ricchezze prodotte da tante attività nostrane finiscono così oltreconfine, a foraggiare attività straniere, a renderle ancora più forti anche verso noi stessi. Un esempio su tutti, la moda. Abbiamo belle e ricche aziende come Prada (3,3 miliardi di fatturato), Armani (2 miliardi), Diesel (Renzo Rosso, 1,5 miliardi), Zegna (1,2 miliardi) ecc… Ma i francesi, nostri principali competitori, hanno due gruppi del lusso da 23 (Lvmh) e 12 miliardi (Kering) di euro. E non è un caso che nel portafoglio del primo ci siano Loro Piana, Bulgari, Fendi; in quello del secondo, Gucci, Bottega Veneta, Pomellato, Sergio Rossi, Brioni – quanti cognomi italiani ora da accentare sulla vocale finale!E quanti sono i gruppi del lusso francesi in mano agli italiani? Ecco il punto. Gli italiani ci sono, il sistema-Italia molto meno. Come ci ha ricordato Marchionne mentre portava la Fiat dalle parti di Detroit…

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