Negli ultimi anni della sua attività al «Cittadino» il professor Burinato lavorava ogni mattina nella saletta dei collaboratori. Ogni mattina tranne il martedì, quando con il fotografo Paolo Ribolini andava ad intervistare sul territorio quelle famiglie che da più di trent’anni conducevano una propria attività. Perciò capitava di incontrarlo, passando in redazione, soprattutto nei mattini d’estate quando i collaboratori cercano un luogo dove scrivere al fresco. È così che qualche volta ho condiviso gli spazi con il “professore”. Perché Walter Burinato era chiamato così anche dopo che aveva smesso di insegnare, e ogni tanto capitava nelle sue interviste che qualche ex alunno lo riconoscesse. “Sono stato nella classe… nell’anno…”. E lui ricostruiva quegli anni, quella classe, ritrovava quella persona. E lo faceva con un sorriso. Chi l’aveva riconosciuto gli aveva regalato una relazione ritrovata, un rapporto nuovo. Questo vorrei dire a chi magari non sa quanto piacere possa avergli fatto, ritrovarlo quel giorno. E al professore piaceva ricostruire l’albero genealogico della famiglia, scrivere proprio tutti i nomi nell’articolo che avrebbe pubblicato, oltre che imparare dai suoi ex alunni ciò che loro ora gli spiegavano della propria attività.

Quando apprendeva qualche curiosità, la condivideva con chi passava dalla saletta dei collaboratori. “Di che colore sono le api?” E potevi star certo che c’era sotto qualche sorpresa. A volte commentava i tuoi stessi articoli con qualche battuta, e tu capivi che li aveva letti davvero, fino in fondo. Anche se si trattava dell’ultima arrivata.

Da lì nascevano considerazioni sul lavoro, magari racconti dei suoi anni al giornale. Di quando andava in trasferta al seguito delle squadre sportive, o di quella volta in cui erano saltati tutti gli articoli e la pagina aveva dovuto essere riempita interamente da capo, grazie ai suoi articoli. “Almeno ho firmato con sette o otto pseudonimi, non stava bene un nome solo…” E rideva.

Poi l’impegno con le classi delle elementari che il mattino visitavano la redazione e l’immancabile foto finale, qualche volta le considerazioni sulle montagne attorno a Verona, lo scambio di esperienze su quanto si stava scrivendo.

Ad un certo punto, a fine mattinata, si preparava. Riordinava le carte con i suoi appunti dai quali aveva tratto le frasi che con gusto aveva digitato sulla tastiera, qualche volta chiamando chi era presente a condividerne l’ironia. Una sigaretta fuori nel cortiletto, poi con tranquillità prendeva il suo cappello appeso, se lo posava sul capo, salutava e usciva. Andava a prendere la nipotina. Altre volte era così preso dalla scrittura da perdere di vista l’orario, allora la moglie telefonava e lui improvvisamente si rendeva conto di doversi affrettare.

Nel suo cassetto, ben ordinata insieme agli appunti, c’era una delle sue “classifiche” speciali: quella sui sacerdoti che nel 1990 erano parroci, quando proprio Burinato li aveva intervistati ad uno ad uno. Le colonne indicavano le votazioni a seconda della disponibilità, della gentilezza, della completezza delle informazioni, infine il voto generale. Una volta mi concesse una sbirciatina, sempre con un sorriso. E non potei che constatare, per quelli che conoscevo anch’io, che il professore, venticinque anni prima, ci aveva azzeccato. Classifica rigorosamente conservata negli anni, come altre ancor più famose.

Se quando Burinato parlava del passato nel giornale (della sede vicino a dove un tempo sorgeva il cinema Marzani e di quella precedente nei pressi dell’Incoronata), ascoltavo l’esperienza di quegli anni di cui non ho fatto parte, è stato bello in tempi più vicini sentire raccontare quegli episodi e condividere con lui qualche mattino, scambiando opinioni e spesso ricevendo in dono una battuta che mi regalava una risata serena. Qualcosa che non potevo tenere soltanto per me. Con vicinanza alla famiglia del professore,

© RIPRODUZIONE RISERVATA