Sulla Belvedere vola l’aquila dei Gimondi

Dalla Val Taleggio a Montanaso fieri dello stemma di famiglia

Mentre ascolto Gerardo Gimondi, agricoltore della cascina Belvedere di Montanaso Lombardo (in realtà questa corte avrebbe due nomi: Belvedere e Palazzetta), finisco più volte per distrarmi: osservo i suoi occhi, vivacissimi e a volte velati di malinconia, la barba che gli circonda il viso, dandogli un aspetto da uomo serioso e saggio; a tratti, mi distrae anche la sua voce, quando chiama la moglie, Simona Nanni, per renderla partecipe di quest’incontro, mentre lei vorrebbe sottrarsi. Mi colpisce con quanta dolcezza la chiami. Forse mi sono lasciato influenzare dal fatto che Gerardo e Simona, mi piace adesso chiamarli solo con il nome, abbiano sei figli: il primogenito Thomas ha trent’anni; seguono Denis, ventinovenne, Peter, venticinque primavere, William, ventuno; e, infine, due gemelli: Emanuele e Camilla, sedicenni, studenti al terzo anno delle classi superiori. I ragazzi grandi, invece, hanno tutti un impegno agricolo nell’azienda di famiglia, anche se Thomas ha pure avviato un’attività in proprio come contoterzista.

UNA MIRACOLOSA APPARIZIONE

Davvero, sarà stato questo a condizionarmi, ma ascoltando Gerardo mi sembra di avere davanti un patriarca, malgrado egli abbia solo 55 anni. Ha un modo particolare di esprimersi, sempre pacato, di chi controlla le tante idee filtrandole con il metro della saggezza, con la cautela della prudenza. Mi piace il forte senso che ha della famiglia: quella propria, che apre alle amicizie le porte della cascina come quelle del cuore, e quella da cui proviene, che ha origini remote, remotissime, e pone le proprie radici nella Val Taleggio, precisamente nel comune di Gerosa.I Gimondi hanno pure il loro stemma: c’è l’immagine di un’aquila, ed altri simboli, di cui però non è stato tramandato il significato. L’araldica di famiglia è legata ad una storia antica, legata al culto dell’apparizione della Madonna della Foppa. Questa credenza risale ad un evento che sarebbe avvenuto in un giorno del luglio 1558: due pastorelle stavano pascolando il loro gregge di pecore in una valletta (appunto “foppa” in bergamasco) di Gerosa; all’impegno lavorativo, univano la gioia della preghiera; solo verso sera vollero concedersi un momento di riposo e, vista l’ora, cenarono; ma avevano dimenticato l’acqua: il desiderio di dissetarsi divenne fortissimo e le loro gole presero ad ardere; all’improvviso apparve loro la Madonna che, un volta confortatele, mostrò loro una sorgente, posta ai piedi delle fanciulle. A loro volse l’invito di sollecitare gli abitanti del paese nella costruzione di un tempio, che fu subito edificato, dove riunirsi in preghiera.Mezzo secolo dopo la Madonna sarebbe nuovamente apparsa: questa volta in sogno ad una ragazza, alla quale avrebbe raccomandato di avvisare gli abitanti di Gerosa che, se si fossero recati in preghiera al tempio, sarebbero stati risparmiati dal flagello della peste, portata nel 1630 dai Lanzachenecchi. È probabile che in quest’occasione gli abitanti del luogo, resi salvi dall’epidemia, avessero offerto oltre agli ex voto, i propri stemmi di famiglia, ancora oggi conservati nell’edificio sacro dedicato alla Madonna della Foppa. Simona Nanni Gimondi ha riprodotto più misure di questo stemma, che oggi rappresenta in modo molto eterogeneo la sua famiglia: esso, infatti, è esposto sui trattori, esibito su felpe e cappelli, posto all’ingresso di casa.

IL PATRIARCA BOSCAIOLO

Ne sarebbe stato contento il primo patriarca di famiglia: Leone Gimondi. Egli faceva l’agricoltore in Val Taleggio ma, avendo solo qualche vacca, aveva affidato tutto alla moglie, ed era andato a fare il boscaiolo, spostandosi ovunque lo chiamassero. Lui segava i tronchi e li metteva in pila sulla teleferica, affinchè come razzi scendessero a valle. Oggi Gerardo ricorda il nonno per quelle sue mani, grandi e muscolose, che quando era piccolo lo impressionavano terribilmente.Nel 1924 Leone Gimondi fu arruolato per la guerra di Libia; sua moglie era incinta, e Leone ebbe il presentimento, per fortuna errato, che non sarebbe tornato dal campo di battaglia; per questo raccomandò alla consorte di chiamare il nascituro, fosse nato maschietto, con il suo stesso nome: e così in casa Gimondi si ebbe un altro Leone.Leone junior Gimondi fu un agricoltore di razza; era stato anche lui in guerra, durante il secondo conflitto bellico, e una volta tornato aveva deciso che fermarsi a Gerosa non aveva alcun senso: meditò, come i tanti agricoltori di quel tempo e di quei luoghi, se spostarsi in Svizzera o in Francia o se scendere in pianura per fare il malghese. Optò per quest’ultima scelta, recidendo i legami con le proprie origini montanare.Con sé portò la moglie Isolina Pesenti Barili: il motivo del doppio cognome è che in Val Gerosa si chiamano tutti Pesenti, e così gioco forza ciascun ceppo familiare, diverso dall’altro, ha dovuto aggiungere ufficialmente il secondo cognome, quasi fosse una “scumagna”.

IN CASCINA A MEDIGLIA

Nei primi anni i Gimondi si spostarono di frequente: Limito, Pioltello, Liscate, tra le altre tappe, ed infine Mediglia, dove Leone junior andò come malghese alla cascina Cà del Lambro, un piccolo podere sulla riva del fiume. Un luogo infelice, a ripensarlo oggi: con l’acqua che esondava continuamente, che dove batteva rubava terreno, e così si dovevano fare in continuo guardie notturne per stare vigili e non essere colti impreparati da una piena. Un posto difficile, ma che Leone Gimondi, con lungimiranza, non si lasciò scappare l’occasione di accaparrarsi quando il cascinale fu posto in vendita. In azienda, con il proprio latte, si produceva il taleggio, almeno nei primi periodi.Leone ed Isolina ebbero quattro figli: Giuseppe, che è rimasto a Mediglia, ha proseguito l’attività agricola e solo lo scorso anno ha venduto la propria mandria; Sergio, che ha optato per gli studi, si è diplomato perito all’Istituto tecnico industriale Feltrinelli di Milano e oggi è tecnico di aeromobile. Gerardo, testimone della nostra storia; ed infine Paolo, purtroppo deceduto nel 1988 in un incidente stradale.Leone fu un ottimo maestro di vita per i propri figli; insegnò loro un principio fondamentale: quello dell’umiltà; diceva sempre loro di avere pazienza nell’attendere il raccolto, ma quando questo si fosse rivelato abbondante, di non lasciare l’erba in eccesso sul prato, ma di rastrellarla, facendone economia semmai i tempi prendessero un’inaspettata brutta piega. Raccomandava loro di essere previdenti, ma al tempo stesso di non avere paura: se il passo appariva più lungo di quanto potevano garantire le proprie gambe, ebbene, non ci si doveva tirare indietro, ma lavorare il doppio, anche il triplo, per mantenere gli impegni presi. Era stato così che lui gradualmente aveva ampliato la sua azienda agricola.

UNA LEZIONE COMPRESA

E di questa lezione fece tesoro il nostro Gerardo quando, nel 1981, decise di mettersi in proprio dividendosi dal padre e dal fratello. Proprio a Montanaso Lombardo si liberava la cascina Belvedere, proprietà di Alessandro Granati di Casalpusterlengo, ma che negli ultimi tempi era stata condotta in affitto dall’agricoltore Piero Sestagalli. Successivamente acquistò pure la porzione di corte che era proprietà di Zucchelli (appunto la cascina Palazzetta) e quindi la possessione che apparteneva ai soci Ferrari e Moroni. Gerardo Gimondi veniva da Mediglia: qui era forestiero. Ambientarsi in un luogo nuovo, agli inizi, non è mai facile per nessuno. Ma lui seppe vincere ogni diffidenza.Gerardo aveva da poco sposato la sua Simona Nanni, originaria di Dresano e i cui genitori erano tassisti, quindi ben distanti dal mondo agricolo. Simona quando giunse a Montanaso Lombardo, alla corte Belvedere, aveva soltanto sedici anni e non sapeva da che parte cominciare: divenne immediatamente una perfetta agricoltrice, talmente brava da non concedersi indulgenze materne, almeno con i primi figli, che faceva rigare dritto. Vivere in campagna le ha dato la possibilità di affrancarsi dalle etichette: casa Gimondi non ha mai regole troppo precise, perché gli impegni casalinghi vanno conciliati con quelli della stalle e degli animali.

UN GRANDE ALLEVAMENTO

I Gimondi cominciarono con quindici vacche da latte e cinque manzette, una sorte di dote che Leone aveva voluto dare al figlio Gerardo. Sono passati trent’anni da allora e nello scorso marzo è nata la vitellina numero mille, contando soltanto le femmine. Adesso in azienda vi sono più di duecento capi, di cui oltre cento in produzione di latte, conferito allo stabilimento Milano di Peschiera Borromeo.Gerardo, coadiuvato da moglie e figli, ha aumentato anche gli ettari, terreni in parte di proprietà qui nel territorio di Arcagna, e in parte, quelli condotti in affitto, dislocati altrove: si tratta, in prevalenza, di appezzamenti a prato stabile, colture alternate tra lo ietto e il mais di primo e secondo raccolto, a seconda del mese di piantagione. Tutta la produzione serve per il fabbisogno alimentare delle proprie bovine. A guardare le cose a ritroso si può dire che Gerardo e Simona Gimondi hanno veramente avuto coraggio; la redditività dell’agricoltura è affidata a cifre molto chiare: quando correva l’anno di grazie 1981 nel vendere al macello una buona bovina si guadagnavano duemila lire a kg; oggi, trent’anni dopo, si guadagna un euro. Lo stesso per il latte: negli anni Novanta il produttore si metteva in tasca ottocento lire a litro; oggi, quaranta centesimi.A casa Gimondi, tra i genitori e i ragazzi c’è il solito, classico scontro generazionale: Gerardo ha molta saggezza e capisce le esuberanze dei suoi ragazzi, certe volte li accontenta, altre volte s’atteggia ad anziano e frena i facili entusiasmi. Accanto all’impegno agricolo, Gerardo ha svolto altre attività: dal 1985 è consigliere comunale; ed è stato presidente dell’Associazione Combattenti e Reduci, che commemora i caduti delle Guerre. La vita dei Gimondi, pur vissuta in modo radicale nell’impegno agricolo, si dipana attraverso tanti interessi; ero arrivato alla cascina Belvedere nelle prime ore del pomeriggio, tra le nubi talvolta faceva capolino un raggio di sole, e vado via che è buio fitto, ma proprio fitto fitto. Chissà se nel cielo, sopra il Santuario della Madonna della Foppa, a quest’ora brillano le stelle.

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