L’ultimo San Martino del signor Sudati

Dopo tanti traslochi, l’approdo alla cascina Andreola di Pieve

A pomeriggi così mi piace fare il filo: passeggiare alla corte Andreola di Pieve Fissiraga senza avere fretta; l’ospitalità del signor Giuseppe Sudati è così calda e partecipe che mi fermerei sino a sera: ogni due passi ci si ferma e si scambiano quattro parole. «Quello agricolo - mi dice il signor Giuseppe, classe 1940 -, non è un semplice lavoro; è un mestiere. E quando si sceglie di svolgere un mestiere si devono accettare tutte le conseguenze: nella mia vita, mi sono spostato tante volte, e ogni San Martino mi dava malinconie e nuove speranze, ma traslocare faceva appunto parte del mestiere, e ciò mi ha aiutato a non avere mai rimpianti».Ogni inizio era difficile: «Quando sono arrivato qui a Pieve Fissiraga - sorride - non avevo conoscenze. Non sono mai stato uno che girava nei paesi: o la cascina o la Messa in chiesa. Poi la gente bussava alle porte della corte per cercare lavoro. E sono stato apprezzato. Per quello che sapevo dare: serietà, onestà e umiltà nei modi».Giuseppe Sudati ha una visione particolare su come si è sviluppata negli ultimi decenni l’imprenditoria agricola: «Prima la terra apparteneva interamente ai proprietari, che mandavano i figli a studiare, e questi poi preferivano fare altri mestieri che non condurre le aziende di famiglia. Invece i fittavoli lavoravano sodo e ai figli non mettevano grilli per la testa: dovevano fare lo stesso mestiere, anche quando sembravano portati negli studi. Alla fine, i fittavoli hanno acquistato le possessioni, sapendo come si lavorava la terra e si governavano le stalle, perché dei vecchi proprietari nessuno era più in grado di reggere il passo con i tempi».

Origini nobili La cascina Andreola è antichissima: il suo toponimo deriva dalla nobile stirpe lodigiana degli Andreoli, che ne mantenne a lungo la proprietà. Nel 1624 l’acquistò il vescovo Seghizzi, che ne fece un lascito testamentario per il fratello Giovanni Stefano; ma quest’ultimo volle restituirla alla Chiesa locale, garantendo però per se stesso un’interminabile serie di benefici. Tanto che la Curia, nove anni dopo, non vide l’ora di sbarazzarsi della corte, cedendola a tale Paolo Baiano per un prezzo assai inferiore alla metà di quanto l’aveva acquistata il Vescovo. Da allora la possessione passò di privato in privato sino ad arrivare, ai nostri giorni, alla famiglia Sudati.Oggi il signor Giuseppe Sudati è il proprietario della nuova parte della corte, mentre il fratello Cesarino è il possessore della zona più antica, quella storica.Dalla nobiltà si è dunque passati agli eredi dei “masserotti”, così si definivano nel Cremonese quelli che riuscivano a divenire piccoli coltivatori diretti, ma che possedevano davvero poco, pochissimo. Come il nonno di Giuseppe, che aveva egli stesso l’identico nome del nipote. L’originario capostipite che memoria ricordi, in realtà, nativo di Capergnanica, non era affatto messo male economicamente: possedeva, infatti, 15 vacche; ma aveva avuto undici figli e quelle bestie erano appena sufficienti per garantire un reddito che sfamasse tutti quanti.

I figli del patriarca Purtroppo il patriarca morì a 55 anni. Mentre dei suoi undici figli, ben tre erano divenuti religiosi, perché a casa Sudati le preghiere venivano prima di tutto e la fede non era una prassi, ma un dono sincero; così uno divenne lo storico parroco di Vaiano Cremasco: don Vito Sudati; mentre due ragazze abbracciarono i voti di consacrate. A proseguire l’impegno agricolo furono in cinque: due fratelli gemelli si trasferirono in un’azienda agricola nel Bresciano, due restarono a Capergnanica, uno si trasferì a San Zenone al Lambro alla cascina Ceregallo. Ma la gestione degli affari era unica: così capitava che, talvolta, i fratelli si scambiassero le proprie destinazioni. Erano tutti eccellenti “latè”. Francesco Sudati, il papà del nostro Giuseppe, era nato nel 1912. Inizialmente s’era stabilito a Capergnanica; poi, una volta tornato dalla guerra, aveva intrapreso la propria strada, andando a condurre la cascina Scovola di Leno. Correva l’anno 1947. Qui mostrò subito quanto fosse attaccato alle proprie radici; aveva deciso di ampliare il numero di bovine, ma gli accordi con i caseifici lo lasciavano perplesso: dopo tutto la materia prima proveniva dalla sua stalla, e dunque non accettava che il suo guadagno fosse così misero. Allora, prese due cavalli e un carro si recò a Capergnaniga dove, presso l’azienda di famiglia, ritirò una vecchia caldaia. L’indomani si rimise a lavorare direttamente il formaggio.

Un uomo all’antica Francesco Sudati aveva sposato con Anna Fusari Imperatore, figlia di “fitaulotti”, cioè di piccoli affittuari. La coppia ebbe sette figli viventi. Il signor Francesco era un uomo all’antica; i figli gli davano del voi, e qualunque cosa dicesse loro il padre eseguivano le direttive senza fiatare. Anche mamma Anna era severa: però, entrambi, sapevano essere fondamentali punti di riferimento; con la loro abnegazione offrivano valori ed esempi importanti, di quelli da tenere presenti per la vita.Una delle nuove leve di casa Sudati, Domenico, come nella tradizione di famiglia, divenne sacerdote. La sua vocazione fu chiara sin da quando era piccolo: infatti, il padre lo mandava a ripulire le ripe dei fossi insieme ai fratelli, ma mentre questi ultimi s’impegnavano allo spasimo, di Domenico si perdevano le tracce. Tornando a casa, lo ritrovavano acquattato sotto ad un albero, dove aveva allestito un altarino e pregato per l’intera giornata. All’arciprete della zona non parve vero di trovare una famiglia così timorata di Dio, dove la fede era ardente: e pensò di infoltire gli studenti del seminario, prendendo anche il nostro Giuseppe. Ma quest’ultimo, dopo un triennio sopportato più per non deludere l’arciprete che per verificare una qualche vocazione, fece intendere a tutti che a lui importava solo di fare l’agricoltore, e se ne tornò a lavorare nei campi, mentre suo fratello Domenico divenne il prevosto della frazione Molinetto di Giussano, nella provincia di Brescia.

A balbiano Nel 1957 la famiglia Sudati si spostò a Balbiano, dove rimase per sette anni. Nel 1964, il nostro Giuseppe, a quel tempo ventiquattrenne, andò a condurre la cascina Gavazzo di Mediglia, di proprietà dell’Ospedale Maggiore di Milano; sino a quella data la corte era stata condotta dal cavaliere Ulderico Brambilla, i cui figli sono imprenditori noti ed apprezzati nella realtà della frazione Villa Pompeiana; il cavaliere, che era una persona dai modi squisiti, un vero gentleman, aveva qualche acciacco fisico, e i figli ancora giovani d’età, per pensare di proseguire da solo l’impegno agricolo. Così i Sudati divennero i nuovi affittuari del nosocomio milanese.Giuseppe si diede subito da fare; anche qui fu realizzato un caseificio diretto da suo fratello Mario; e uno spaccio, dove si vendevano grana padano, burro, uova e polli. Nel frattempo Giuseppe sposò Maria Veronesi, originaria di Tavazzano con Villavesco. Cinque anni dopo ancora uno spostamento: Giuseppe tornò a Balbiano, ma questa volta l’inserimento si rivelò difficile: la proprietà della corte era passata alla chiesa locale (a quel tempo ancora diocesi) di San Giuliano Milanese, il contratto era in scadenza, insomma ancora una volta Giuseppe Sudati pensò che fosse meglio fare San Martino.

Nel lodigiano Nel 1972 i Sudati acquistarono la corte Andreola di Pieve Fissiraga direttamente dal signor Francesco Bernocchi, che smetteva l’attività. A quel tempo le aziende agricole si ammodernavano, ma il vecchio patriarca Francesco Sudati era contrario ad ogni novità: per lui i carrelli in cui veniva depositato il latte non davano garanzia d’igiene e quindi pretendeva che si continuasse con la mungitura manuale; cinque collaboratori si recavano in stalla e per due ore e mezza restavano seduti sullo “scagnel”.Nel 1974, per mancanza di manodopera, il caseificio della corte Andreola fu chiuso e si abbandonarono i vecchi sistemi. Due volte al giorno il latte ancora caldo, appena munto, veniva portato alla cascina Gavazzo di Mediglia, dove Vittorio, uno dei fratelli Sudati, proseguiva la produzione del formaggio. Una scelta troppo controcorrente. Provvidenziale fu l’incontro con la cooperativa Santangiolina, cui fu definitivamente conferito il latte. Nel 1975 morì il vecchio patriarca Francesco. Il destino gli fu beffardo: tornava da un funerale a Melegnano, un camion gli tagliò la strada, lui terminò in un fossato colmo d’acqua e vi annegò.Dopo questa circostanza i fratelli Sudati cominciarono a guardare al futuro: Vittorio rimase definitivamente a Mediglia, Mario andò alla cascina Guado di Casaletto Lodigiano, Cesarino e Giuseppe proseguirono alla corte Andreola di Pieve Fissiraga.Nel 2002 Giuseppe si staccò definitivamente dal fratello: quest’ultimo rimase nella parte antica della corte, al governo di un’importante porcilaia; Giuseppe, insieme al figlio Francesco, costruì i capannoni di una moderna stalla all’aperto, dove oggi vi sono 110 vacche in mungitura ed altrettante in allevamento; l’altra figlia di Giuseppe e della signora Maria, Letizia, è laureata in matematica e insegna nella scuola primaria di Sant’Angelo Lodigiano.Papà Giuseppe Sudati e il figlio Francesco hanno rafforzato notevolmente la stalla, puntando sulla genetica e migliorando così la qualità del latte. I Sudati hanno un collaboratore, un mungitore indiano. Il loro è un impegno costante, oneroso, che non sempre ripaga degli sforzi posti in essere.Il signor Francesco Sudati è un uomo che conosce come va il mondo: sa che pensionati, disoccupati e operai hanno più diritti degli altri nel lamentarsi, ma gli imprenditori agricoli hanno un cappio attorno al collo, e a stringere la corda è l’economia attuale; se con il prezzo di vendita a kg dei bovini maschi a stento si compensa il costo di una fiala per l’inseminazione artificiale vuole dire che qualcosa proprio non va.Per fortuna c’è la passione. E il senso del mestiere. Basi indispensabili per guardare al futuro con rinnovata fiducia.

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