Rubriche/Cascine
Domenica 25 Marzo 2012
L’orgoglioso patriarca della Reghinera
Nonno Stefano Acerbi racconta la storia della corte di Cavacurta
C’è stato un momento, proprio mentre stavamo per congedarci, dopo una bellissima e lunga visita alla cascina Reghinera di Cavacurta, che ho pensato di dare una pacca sulle spalle al signor Acerbi, proprietario della corte, e dirgli a voce tonante: «Piacere di averti conosciuto, nonno Stefano...».E nel chiamarlo nonno, lui che in effetti ha cinque nipoti, immagino, avendo davanti un uomo di settantadue anni che con formidabile ironia e profonda verità si domanda cosa farà una volta adulto, che Stefano Acerbi mi avrebbe guardato di sottecchi e sarebbe stato al gioco.Perché egli è un autentico uomo di mondo, come lo furono alcuni dei suoi avi, e pure i suoi discendenti: amanti della vita, avventurieri, emuli di Lawrence d’Arabia, geniali, e, soprattutto, simpaticissimi.
Un inizio difficile La cascina Reghinera è una delle più antiche possessioni terriere del Lodigiano, già citata in documenti dell’anno 997; gli Acerbi ne sono proprietari almeno dalla fine del Settecento. Il capostipite che memoria ricordi si chiamava Stefano senior, ma di lui si conservano poche notizie, tra l’altro anche tristi.Ancora giovane, aveva perso la moglie, morta durante il secondo parto. La sua preoccupazione maggiore, allora, fu come allevare i figli, il primogenito Giovanni, nato nel 1908, e Luigi del 1911. Trovò la soluzione migliore nello spedire i bambini a Milano, iscrivendoli al glorioso collegio Longoni, e da quel momento vedendoli pochissimo. Per i ragazzi, anche una volta cresciuti, il padre rimase un perfetto estraneo. Luigi tra l’altro non si liberò mai dal complesso di colpa di essere venuto al mondo compromettendo la vita della madre e il padre non fece nulla per alleviargli questo inconscio dolore. Luigi fu uomo di studi e si laureò in Medicina, frequentando l’Università a Torino, divenendo successivamente primario ospedaliero in pediatra. Giovanni, invece, con i libri non andava eccessivamente d’accordo e il padre lo richiamò in cascina, ma sempre ignorandolo, e affidandolo all’agente e al fattore affinchè ne facessero un buon agricoltore.Giovanni Acerbi apprese soltanto metà della lezione: divenne bravo nel dare ordine ai suoi uomini, ma non indossò mai un paio di stivali per verificare come andassero effettivamente le cose sui campi. Giunto all’età di 35 anni, quando prese a condurre da solo l’azienda agricola, Giovanni decise che all’impegno agricolo era meglio anteporre, sempre, i piccoli piaceri della vita: la sveglia non doveva suonare prima delle nove del mattino; quindi arrivava il mediatore, tutti i santi giorni, e tirava in chiacchiere sino a mezzodì; poi era l’ora del riposino; al risveglio, faceva sellare i cavalli per andare a chiudere la giornata nei bar di Codogno. In cascina, aveva fatto arrivare un trattore Landini testa calda, ma aveva pure dato l’ordine di non utilizzarlo per nessuna ragione al mondo: faceva infatti rumore e disturbava la sua quiete. Spesso Giovanni partiva, poiché amava viaggiare; ma poiché anche i viaggi finivano per annoiarlo, si diede due regole fondamentali: cambiare sempre luoghi e, soprattutto, fidanzate che lo accompagnassero.Alla fine, l’impresa agricola stava andando a ramengo: tuttavia, ammalatosi, nel 1961, chiese al fratello medico se poteva mandargli il nipote a coadiuvarlo per le attività agricole. Il figlio del dottor Luigi è Stefano Acerbi, il simpaticissimo testimone di questa storia.
Frisone e maialini Stefano pensò che il padre, nel presentargli questa proposta, stesse scherzando: lui aveva già superato l’esame d’ammissione per la facoltà di Architettura presso la prestigiosa Università di Versalilles, dove voleva specializzarsi nell’arte della realizzazione dei giardini. Ma il dottor Luigi non scherzava affatto e così Stefano ripiegò sull’iscrizione alla facoltà d’Agraria di Piacenza e cominciò a lavorare con lo zio.Nel febbraio 1962, Giovanni Acerbì morì e il nipote Stefano si trovò a condurre da solo l’azienda, assolutamente privo d’esperienza. Avendo però intelligenza e fiuto, capì che dovevano essere eliminate tutte le spese superflue, tagliò buona parte del personale che con lo zio Giovanni aveva fatto il bello e il cattivo tempo, e si affidò ad un fattore che sapesse non solo comandare ma istradarlo sul lavoro: questi fu Carlo Torresani, papà di Luigi, noto corridore ciclistico lodigiano. Torresani rimase con Stefano Acerbi per un paio di decenni e, con il suo impegno e la sua competenza, seppe ridare lustro alla cascina Reghinera. Altri aiuti arrivarono a Stefano dai colleghi agricoltori, primi fra tutti i fratelli Milesi, a quel tempo affittuari degli stessi Acerbi alla cascina Faruffina; e poi dai Cerri di Melegnanello; fondamentale anche il confronto con il dottor Mazzoleni, all’epoca punto di riferimento per l’agricoltura lombarda relativamente alla costruzione delle stalle all’aperto.Stefano Acerbi si mosse su più fronti: intanto, eliminò le vacche brune alpine, che producevano latte di qualità senza mai raggiungere significative quantità; la nuova stalla all’aperto ospitò oltre cento nuove bovine di razza frisona. Il latte fu conferito inizialmente alla ditta Galbani, successivamente alla Cooperativa Produzione Latte di Codogno. Inoltre, Stefano Acerbi mantenne anche i bovini maschi per la produzione delle carni. Quindi realizzò una porcilaia, dapprima in società con i Milesi, poi, quando l’attività divenne più impegnativa, con i Cerri: si arrivarono ad avere 400 scrofe che garantivano ottomila maialini all’anno, venduti al raggiungimento dei venti chilogrammi.
Borbottii e lamenti Sino agli anni Ottanta, Stefano Acerbi immise nell’azienda agricola ogni sua stilla d’energia. Poi le cose cominciarono a complicarsi. Questione di dettagli, forse. O, più probabilmente, di carattere: Stefano, persino per qualunque cosa di buono accadesse, era solito compiacersi in un unico, costante modo: lamentandosi. O perché c’era il sole, o perché pioveva, e poi c’era la vacca ammalata e quella che doveva partorire e l’altra che non restava gravida, e il dipendente che lo coinvolgeva troppo e quello che gli chiedeva poco. Per ogni cosa, borbottava. Aveva avuto il privilegio di sposare una ragazza milanese, Giuseppina Grigioni, detta “Pua”, che s’era ambientata in cascina come fosse nata lì invece che nel capoluogo lombardo, ma l’apparente negatività di Stefano sulle vicende agricole finì per allontanare i loro figli, Ferdinando e Isabella, dalla pur minima possibilità che potessero proseguire l’impegno agricolo.Isabella, una donna intelligente e con tanti estri, ha lavorato per anni nella moda, per Armani, finchè non ha scelto di dedicarsi alla propria famiglia, riducendo l’attività. Ma, in ogni caso, chi s’intende di abiti, non può certo interessarsi di zolle. Così, Stefano Acerbi provò a convincere il figlio Ferdinando a dargli una mano. Ma qui occorrerebbe aprire un nuovo capitolo sulle straordinarie vicende della famiglia Acerbi: perché Ferdinando è uomo di mondo quanto lo fu il suo prozio, e chissà quale altro trisavolo perso nella notte dei tempi. Un giorno, facendo credere al padre di essere ancora indeciso se fare o meno l’agricoltore, Ferdinando si presentò in cascina con la divisa dell’aereonautica militare. Non che avesse scoperto d’improvviso questa vocazione, per la quale anzi non si sentiva minimamente portato, ma l’aviazione gli dava la possibilità di valorizzare quello che, all’epoca, era il suo vero interesse: montare a cavallo. Era infatti un vero maestro nel dressage equestre. Così, ora per l’esercito, ora per la Federazione Italiana Sport Equestri, cominciò a girare il mondo, e a partecipare a gare internazionali.
Mare che passione Quando Ferdinando aveva due settimane di riposo, raggiungeva il padre Stefano, ed entrambi si dedicavano ad un’altra comune passione: quella del mare. Gli Acerbi avevano venduto una propria imbarcazione, un gozzo genovese, scoprendo conseguentemente quanto fosse orrido osservare le acque dalla battigia. Stefano allora durante un viaggio in Eritrea conobbe uno skipper e si mise in società con lui prendendo in affitto un caicco di trentasei metri: la passione per il mare si tramutò in possibilità di fare reddito. L’imbarcazione era spesso nello Yemen e divenne il mezzo di viaggio preferito per tantissimi turisti. Anche Ferdinando prese ad apprezzare la vita di mare e, lasciata la monta, l’aereonautica militare, la federazione sportiva, e tutto il mondo di prima, prese a realizzare, con il socio yemenita del genitore, nuovi affari. E scelse definitivamente la via del mare. Nel mondo, in largo, in lungo e in profondità. E, proprio durante un’immersione, un gravissimo incidente sembrò deviargli in modo drastico il percorso dell’esistenza: gli fu detto, e chiarito in ogni modo, che sarebbe rimasto paralizzato. Immobile.Ma quei medici non conoscevano Stefano, che tanto studiò il suo caso clinico sino a trovare un paio di luminari pronti ad assecondarlo e a dargli fiducia, rimettendolo in piedi e rendendolo autosufficiente: Ferdinando è un lupo di mare; sceso dal caicco, è salito su una barca a vela, che guida con disinvoltura, e con la quale ha fatto la traversata atlantica. È anche uomo tosto: ora promuove il superamento dell’handicap attraverso lo sport. Vive a Cuba e la barca a vela è il suo mondo.
L’idea delle angurie Suo padre Stefano si è dunque rassegnato a lavorare da solo in cascina. Un giorno ha avuto l’estro di piantare angurie su tre ettari di terra. Accadde un fatto strano: sembrava che solo lì a Cavacurta crescessero le angurie, che invece in ogni altra parte del mondo restavano striminzite e secche. I commercianti facevano la fila per accaparrarsele, e Stefano Acerbi mise da parte un bel po’ di soldini. Costruì allora nuove serre e innaffiatoi super accessoriati, e ogni altro utile comfort per le sue angurie, ma queste presero a crescere anche nelle altre campagne dell’universo e un anno simile al primo non vi fu più e le file dei camion cominciarono ad assottigliarsi. Stefano Acerbi ha mantenuto, però, il suo impegno nell’orticoltura. Dapprima vendendo direttamente ai mercati generali di Milano; poi quando alzarsi ogni mattina alle 3.30 cominciò a divenire una fatica eccessiva, avviando una produzione destinata alle industrie: mais, pomodoro, fagiolini, fagioli borlotti, piselli, tra i beni prodotti.Nel 2009 è morta la signora Pua, e Stefano Acerbi ha cominciato a sentire troppo grande e vuota la cascina Reghinera. Di recente, è stato in Sudafrica: ha cercato per un mese una piccola fattoria da cui riavviare il nastro delle sue competenze agricole. Non l’ha trovata. Non ancora, almeno. Perché gli Acerbi fanno parte di una razza che non s’arrende mai. Per questo, facesse bagaglio, sarebbe una perdita per la nostra Bassa. Uomini come Stefano Acerbi sono l’orgoglio di questa terra, fanno parte della storia del Lodigiano, agricoltori in servizio permanente effettivo. Anche quando sono nonni di cinque nipoti.
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