Rubriche/Cascine
Domenica 10 Aprile 2011
L’oratorio tra le vigne del rosso banino
La possessione Madonna dei Monti ultima “sfida” dei Danelli
Le luci del tramonto si dilatano. Sono su un’altura di San Colombano, e il pomeriggio non cede di un millimetro all’oscurità della sera. Ogni cosa s’indora di baluginii e rinnova altra luce. Ho trascorse alcune piacevoli ore a conversare con Pierachille Danelli, proprietario con altri suoi famigliari della possessione Madonna dei Monti. I Danelli abitano nel Lodigiano dagli inizi dell’Ottocento. Era stato il trisavolo Pietro a scendere in pianura, verosimilmente dalla Valtellina; la sua destinazione, nel 1815, fu Marudo; dopo andò affittuario presso una corte di Castiraga Vidardo, dove nacque Giuseppe, detto Pepu, il vero patriarca della famiglia. Qui i Danelli si fermarono sino al 1870; poi si trasferirono alla cascina Dei Lunghi di Borghetto Lodigiano. In breve i Danelli divennero agricoltori rinomati nella zona, appassionati di bestiame. Ma quando si era nell’anno 1926 ebbero un inaspettato quanto sfortunato rovescio.
papà pedrin e il carbonchio
All’epoca, era stato nonno Pietro Michele, detto “Papà Pedrin”, figlio di Pepu e Teresina Ottobelli, ad assumere una decisione controcorrente: perplesso se acquistare una cascina o andare in affitto presso una corte che vantasse una stalla di notevoli dimensioni, optò per questa seconda scelta, divenendo affittuario di una corte di Mairago. La sfortuna era in agguato: in quella corte, infatti, si erano manifestati i primi sintomi di una tragica malattia per le bovine, e non appena in stalla arrivò la mandria di “Papà Pedrin” quel male si sviluppò in tutta la sua virulenza. Perirono tutte le vacche da latte, stimate in oltre duecento capi, e le manze da rimonta; inoltre, per precauzioni sanitarie, si fu costretti ad abbattere 12 paia di buoi e 16 pariglie di cavalli, senza contare i maiali. Quel male era conosciuto come carbonchio: le bovine venivano colte da febbri improvvise, caratterizzate da irrefrenabili tremiti, s’accasciavano e morivano, assumendo un colore nerastro, simile al carbone.
“Papà Pedrin” ne rimase molto colpito. Progettò sentimenti di rivalsa verso la vita, che ancora una volta si fece beffe di lui, portandolo anzitempo sottoterra, all’età di 59 anni, e a soli due anni dalla perdita di Achille, suo primogenito ventiduenne. Allora la vedova, che si chiamava Virgina Savoldi, prese i suoi ragazzi e li portò a Corteolona, dalla figlia Maria Teresa detta Angela, che aveva sposato un malghese, Marco Sfondrini, appassionato delle proprie origini, e che, pur solido economicamente, aveva scelto di mantenere inalterate le proprie radici.
un povero san martin
I Danelli lasciarono il Lodigiano come l’ultima delle famiglie contadine: misero su un carretto pochi mobili e partirono.
Gli orfani di “Papà Pedrin”, Angelo detto ‘Ngiuletu, Sante, Giuseppe detto Peppino, e Rina, l’ultima nata, avevano però il gene di razza degli agricoltori e una volta giunti da Marco Sfondrini si resero utili nei lavori di mungitura; Marco, che si trovava in imbarazzo a dargli una paga, e che si andava sinceramente affezionando a questi ragazzi, pattuì con loro un affare diverso: invece di retribuirli economicamente, offriva vitelli che i giovani Danelli avrebbero poi allevato.
Gradualmente i Danelli si ripresero e nel 1934 decisero di rimettersi in proprio, ricominciando proprio da dove avevano patito le maggiori sofferenze, e cioè dal Lodigiano: andarono alla frazione Olmo di Lodi. Dopo qualche anno, a seguito dei relativi matrimoni, separarono i propri impegni: Angelo andò a San Martino in Strada, alla cascina Cà de Bolli, la cui proprietà era delle famiglie Vaghi e Invernizzi, mentre gli altri due fratelli presero in conduzione la corte Cascinetta di Villanova Sillaro.
un viaggio disagevole
Quando Angelo arrivò alla cascina Cà de Bolli era il 1946. Egli era un uomo molto pacato, riflessivo, tranquillo: parlava poco, ma quando interveniva le sue osservazioni erano sempre concrete e pertinenti. Per questo la gente lo apprezzava, oltre che per la dote di non fare mai torto a nessuno. Aveva un profondo senso dell’amicizia.
Sempre nel 1946, Angelo Danelli aveva sposato Desolina Coletta Pennè, la cui famiglia era in qualche modo legata al mondi rurale, essendo suo padre un pollivendolo. Quest’ultimo si chiamava Giovanni Pennè ma il suo soprannome era “Patanela”: era un uomo molto navigato, e riguardo al pollame sapeva il fatto proprio; si racconta che i migliori polli fossero spediti addirittura in Inghilterra e che avesse inventato un metodo per la conservazione della uova che all’epoca aveva avuto numerosi riconoscimenti.
Quando Angelo e Desolina Coletta si sposarono il matrimonio fu a lungo ricordato da molti commensali: gli sposi, col calesse, partirono la sera stessa, destinazione Roma e Portici, a Napoli; fu un viaggio, attraverso un’Italia devastata dalla guerra, davvero sfortunato perché Giove pluvio aveva deciso di concentrare tutta la pioggia possibile su quell’itinerario nuziale; inoltre, i giovani sposi non erano abituati alle calorosità del Sud e arrivati a Napoli furono presi di mira da molti cittadini del luogo, da cui scapparono a dir poco terrorizzati. Solo quando rincasarono, il signor ‘Ngiletu prese coscienza di aver dimenticato di riportare in cantina alcune damigiane di vino, che non erano state utilizzate alla festa per lo sposalizio, e di cui i commensali avevano pensato di servirsi durante i giorni successivi: tornati in cascina i coniugi Danelli trovarono alcuni amici che proseguivano con i brindisi, ancora pronti a festeggiare, dopo due settimane, i novelli sposi!
Angelo e il “boom”
Angelo e Desolina Coletta ebbero due figli: il nostro Pietro Achille detto Pierachille, testimone di questa storia, e Maria Loredana detta Diana. Angelo Danelli lavorò con molta passione, e non si scoraggiò neppure agli inizi degli anni Sessanta quando a Lodi e dintorni l’identità agricola sembrava smarrirsi del tutto: non vi erano nuove generazioni di contadini, tutti andavano verso le fabbriche di Milano, e anche chi accettava di lavorare in cascina lo faceva di controvoglia, semplicemente adattandosi, e sperando di trovare collocazione al più presto presso l’industria.
Purtroppo, però, la vita non fu benevola neppure con lui. Morì, nel 1965, che aveva soltanto 53 anni. La sera, alla vigilia della sua scomparsa, aveva fatto un discorso molto chiaro al figlio diciassettenne, chiedendogli se intendeva proseguire l’attività agricola; avendone ricevuto risposta affermativa, gli disse che l’indomani sarebbero andati a vedere una cascina, valutando l’opportunità di acquistarla.
Purtroppo, quella notte stessa richiamò il figlio, avvisandolo che stava male e che quelli erano probabilmente i suoi ultimi momenti. Pierachille ne rimase molto scosso, ma reagì nell’unico modo che avrebbe inorgoglito il padre: quando al mattino alle sette si presentarono i contadini per prendere gli ordini, egli andò con loro a caricare l’erba per la razione quotidiana alle bestie, dando l’immagine della continuità aziendale e del dovere.
Pierachille, però, ad un certo punto si trovò ad un bivio, tra proseguire gli studi universitari o continuare con l’azienda; scelse allora, una buona soluzione di compromesso: si liberò di bovine e scrofe, dedicandosi soltanto alla coltivazione dei terreni. E poiché, per il mantenimento della terra, era necessario avere un carico adeguato di bovine, aprì le porte della stalla ai malghesi: dapprima vennero i fratelli Bellaviti, che giungevano dal Bergamasco, e successivamente ai fratelli Sante e Michele Locatelli.
la chiamata dello zio
Nel 1970 i proprietari decisero di condurre direttamente l’azienda agricola Cà de Bolli e Pierachille potè dedicarsi al completamente degli studi, laureandosi in Architettura al Politecnico di Milano.
È probabile che sarebbe rimasto definitivamente lontano dal mondo agricolo, se a coinvolgerlo non fosse stato uno zio, di nome Francesco Negri. Quest’ultimo era uno straordinario personaggio e la sua simpatia superava persino il suo peso, che s’aggirava, etto più etto meno, intorno al quintale e mezzo. La vita di quest’uomo era stata indirizzata al culto del commercio. Ma alla realtà agricola s’era avvicinato per tutta una serie di casualità, e sopratutto per un consiglio medico: grosso com’era il medico di famiglia gli aveva consigliato l’aria di collina, e soprattutto di fare moto, persino cogliere ciliege gli sarebbe stato salutare. Da qui Francesco Negri aveva preso un appezzamento di terra a San Colombano al Lambro e dalle colture delle ciliege era ben presto passato a quella delle viti.
Un giorno, sentendo che il nipote aveva sempre continue raucedini, lo obbligò a raggiungerlo a San Colombano: se l’aria di collina gli era stata utile per dimagrire una cinquantina di chili, forse sarebbe potuta servire anche a Pierachille per guarirlo da quei persistenti mal di gola. E stavolta il rimedio funzionò. Zio e nipote presero a lavorare insieme nei vigneti.
un bellissimo oratorio
Nei pressi di questi terreni, vi era la bellissima località Madonna dei Monti, così chiamata per via di un bellissimo oratorio, tuttora in buone condizioni, che conserva un’effigie di Maria risalente al Cinquecento e probabilmente custodita in una preesistente cappelletta campestre. Nel più moderno Santuario, voluto nel 1621 dal vescovo Seghizzi, noto per aver partecipato al processo contro Galileo nella qualità di capo del Santo Uffizio, vi erano quattro bellissimi altari, di cui quello principale si trova adesso presso il seminario di Pavia. A ridimensionare il fascino dell’oratorio furono prima gli Asburgo e poi il conte Giovan Battista Sommariva.
Questa possessione apparteneva alle sorelle Galli, parenti di Francesco Negri. Avanti con gli anni, ad un certo punto decisero di disfarsi della loro bellissima abitazione e di andare a vivere altrove. Pierachille con la sua compagnia di vita, Maria Cristina Colla, riuscirono a concludere l’affare e divennero così i nuovi acquirenti del luogo.
Oggi qui vi è un’azienda vitivinicola condotta da Diana Danelli e da Maria Cristina Colla. Qui si produce sia il vino rosso Barbarossa, Rubrum, e quello in botte, Scipio, che il bianco, ottenuto da uve Marsanne, vitigno originario dell’Alto Rodano.
Quando c’è da lavorare l’uva subentra sempre la nostalgia di Francesco Negri che, da buona forchetta e grande anfitrione, con la sua simpatia allietava gli animi e, a dispetto del suo peso, rendeva lieve ogni fatica.
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