L’incantevole scuderia di Ca de’ Zecchi

A Villavesco Gian Antonio Scarpa allena campioni di razza

Ho gli occhi irrequieti; si spostano dal formidabile precipitare delle foglie di vite americana adornanti la facciata della casa padronale, dall’alto tetto sino alle fondamenta dell’abitazione, poi si fermano un istante per ammirare la bellezza del giardino, con secolari piante di magnolia ed altre di inopinate sperimentazioni, e quindi scorgono, nel caseggiato di fronte, cavalli che si sporgono dalla balaustra del proprio recinto e nitriscono esuberanti, scalpitanti per la possente forza.

UN LUOGO DI SOGNOMi trovo in un luogo incantevole. Sono alla cascina Ca de’ Zecchi, più vicina in linea d’aria a Lodi Vecchio che non all’agglomerato storico di Villavesco. Il primo insediamento rurale di questa corte era coevo a Laus Pompeia, di cui costituiva anzi un borgo milanese. Sempre nell’era più tarda - quando era da poco passato l’anno Mille - la corte Ca de’ Zecchi apparteneva alla famiglia Gavazzi di Lodi. Nel 1633 il toponimo era quello di Ca de’ Cecchi e la cascina faceva comune con Muzza di Milano. Nel 1648 era stata conferita in feudo ai conti Massarati. Divenne poi proprietà dell’Ospedale Maggiore di Lodi. La corte era originariamente imponente e, comprensibilmente, cadeva a pezzi. Chiunque ne divenisse affittuario, provava a metterci mano, e a rattoppare qui e là, ma poi inesorabilmente abbandonava e si spostava altrove. Invece, il più recente destino della corte Ca de’ Zecchi è legato alla figura dell’attuale proprietario, che è poi un personaggio straordinario, già per la capacità che ha di coniugare un’asciuttezza caratteriale di fondo, espressione di uno spiccatissimo senso pratico, con una cortesia ineccepibile: Gian Antonio Scarpa.

UNA SPLENDIDA PASSIONELa sua passione per i cavalli ha fatto sì che questa corte tornasse a risplendere in tutto il suo fascino. La suggestione di certi angoli, invece, è merito della sua consorte, la signora Margot.L’approdo a Tavazzano di Gian Antonio Scarpa - avvenuto nel 1978 - può apparire casuale o forse è il suo esatto contrario: ogni cosa, in fondo, ha una ragione invisibile che porta in un luogo, e questo è ciò che si interpreta come destino.Il ceppo degli Scarpa è veneto, originario di Lido di Venezia, isola straordinaria, che si allunga per 11 km tra la laguna di Venezia e il mare Adriatico, e che una volta aveva un fascino speciale, frequentata dai reali della monarchia, caratterizzata da ville bellissime e da parchi invidiabili.Il padre di Gian Antonio, ufficiale di cavalleria del regio esercito, era istruttore di equitazione per la casa Savoia; l’aveva scelto personalmente il duca Pietro Acquarone, affinchè insegnasse a Umberto II e a Mafalda a montare sul cavallo. Per quanto paradossale, il detto militare cui si ispirava sempre l’ufficiale Scarpa era il seguente: per essere un buon cavaliere bisogna saper ragionare da cavallo.Una volta congedatosi, l’ufficiale Scarpa rientrò a Lido di Venezia dove fondò una scuola di equitazione, la prima in quell’isola: tanti furono i suoi allievi, ma tra i più promettenti ne aveva uno speciale: il figlio Gian Antonio. Quest’ultimo avrebbe potuto proseguire l’impegno paterno nell’isola veneta, ma quando era diciottenne gli si presentò una particolare occasione di lavoro: vedendolo alla monta, i fratelli Rivolta, che allora possedevano una fra le più prestigiose scuderie del nord Italia, a Milano, lo convinsero a farsi ingaggiare affinchè valorizzasse i loro cavalli, importati dall’Irlanda.

ISTRUTTORE E GIORNALISTAGian Antonio Scarpa accettò la proposta. Era il 1953. Allora sì che il destino dovette apparirgli strano: da un lato si trovava a vivere, come istruttore e professionista apprezzato, in un ambiente speciale, condividendo profonde e speciali relazioni umane, dall’altro non è che di soldi ne girassero tanti, e non era facile rendersi indipendenti.Per la scuderia dei fratelli Rivolta, lavorava anche Graziano Mancinelli, campione con medaglia d’oro alle Olimpiadi di Monaco nel 1972; con lui, Gian Antonio instaurò un rapporto di straordinaria amicizia; i due furono sodali amici in tantissime esperienza di vita e di lavoro: nei loro inizi a Milano avevano deciso di acquistare in comune una lambretta e la dividevano a settimane alterne.Per arrotondare gli ingressi, senza mai abbandonare il proprio impegno con i cavalli, Gian Antonio Scarpa cominciò a collaborare con il quotidiano La Notte di Milano; questa nuova attività era tuttavia clandestina, almeno inizialmente: egli si limitava a girare gli ospedali e i commissariati di zona, procurando notizie relative alla cronaca nera, che poi passava ad un giornalista, il quale le ampliava e le pubblicava con la propria firma. Quando quest’ultimo cambiò testata, confidò al direttore de La Notte, che all’epoca era Nino Nitruzio, che quegli articoli non erano propriamente farina del suo sacco, e che a confezionarli era appunto Gian Antonio Scarpa.Nitruzio, che aveva fiuto, volle così conoscere meglio quel particolare collaboratore, e decise di puntare su di lui, arruolandolo in modo ufficiale. Dopo un periodo di praticantato, Gian Antonio Scarpa passò al settimanale Tempo, il cui editore era Aldo Palazzi ed il direttore Arturo Tofanelli, sotto la cui testata visse forse le esperienze più belle di questa sua parentesi giornalistica. Ad esempio, lavorò come inviato alle Olimpiadi di Roma del 1960, dove conobbe, James Cleveland Owens detto Jesse, atleta statunitense, noto per la sua partecipazione alle Olimpiadi di Berlino del 1936, allorchè vinse quattro medaglie d’oro in gare di velocità e salto in lungo, e divenne la stella dei Giochi.

CON IL “MITO” OWENSSarò stato per i modi di Gian Antonio, già allora spicci ma caratterizzati da un’impeccabile gentilezza e signorilità, che Owens Jesse, a Roma quale rappresentante per la Federazione statunitense, lo prese in particolare simpatia. I due divennero amici ed assistevano insieme a tantissime gare: tanto che Gian Antonio gli propose di collaborare in modo diretto ai suoi articoli, e nacque così la rubrica Le Olimpiadi viste da Owens, che garantirono al Tempo il pieno delle vendite, con i servizi acquisti anche da altre testate giornalistiche sparse in tutto il mondo.Ad un certo punto l’esperienza giornalistica cominciò ad assorbire molto Gian Antonio Scarpa, forse fin troppo. Era nata come attività di supporto al proprio reddito, e certo non poteva compromettere l’impegno con i cavalli. Quando Gian Antonio si accorse che l’una prevaricava l’altra attività - intorno alla metà degli anni Settanta - abbandonò penna e calamaio, e tornò a dedicarsi esclusivamente ai quadrupedi.Con l’inseparabile Graziano Mancinelli diresse per un periodo il Centro Ippico Castelverde, in provincia di Varese. Poi, la grande svolta dell’acquisto della cascina Ca de’ Zecchi. Accadde che numerose persone chiedessero a Gian Antonio Scarpa di avere cura dei propri cavalli. Nella scuderia della sua cascina sono ospitati oggi 39 cavalli, tutti addestrati per gare da competizione, categoria per saltatori.

UNA SCUDERIA D’ECCEZIONE In un bellissimo recinto per gli allenamenti, c’è una ragazza che monta il proprio cavallo e salta con agilità gli ostacoli. Questa ragazza si chiama Daddy Colucci e viene da Riccione; alla cascina Ca de’ Zecchi ha due cavalli: Light Asia e Lantera. Quando gli impegni universitari non sono pressanti, lei che viene da una famiglia di generazioni di notai e intende proseguirne la tradizione, fa avanti ed indietro con il treno. Aveva anche trovato una diversa sistemazione ai suoi cavalli, in Romagna, ma dopo qualche mese se ne era pentita, riconducendoli così alla Ca de’ Zecchi: il rapporto con l’istruttore è fondamentale per chi monta il cavallo, perché solo ascoltando i consigli adatti si correggono gli errori. Daddy mi spiega la sua passione per i cavalli, vissuta come particolare relazione; un rapporto molto sottile, quasi un’alleanza, basata sul rispetto reciproco: facilissimo da distruggere, difficilissimo da costruire; labile all’inizio, ma infrangibile una volta realizzato. Il cavallo sa misurare i comportamenti del suo cavaliere e si comporta conseguentemente. Possiede un fascino e un’intelligenza acutissimi, anche se di difficile interpretazione: entrare in sintonia, significa prendere la malattia, cioè non riuscire più a fare a meno di cavalcare. Daddy Colucci dice che quando lei sbaglia una mossa, durante una lezione, una gara, una semplice passeggiata, chiede scusa al proprio cavallo.Chi capisce benissimo Daddy e i suoi cavalli è Elena Scarpa detta Popili. È la figlia di Gian Antonio. Anche lei ha la stessa passione: a 4 anni sapeva già montare, mentre undicenne vinceva già il suo primo concorso nazionale. Una passione irrefrenabile; quando andava alle scuole elementari, le maestre, preoccupatissime, chiamarono i genitori: è brava e diligente - spiegarono - ma disegna solo cavalli ed ogni argomento lo riconduce allo stesso tema, appunto, i cavalli. Popili si divide nel suo ruolo di istruttrice e di competitrice: partecipa a numerose gare, ed ora sta addestrando una cavalla niente male, che potrebbe regalare nel futuro discrete soddisfazioni.Se è facile affezionarsi ai cavalli, certi legami diventano indissolubili, anche nel ricordo. Gian Antonio Scarpa mi dice che lui è rimasto molto legato ad un cavallo, che si chiamava Dollaro Magico: aveva disputato i campionati europei, vinto quelli nazionali, e si era aggiudicato tanti trofei. Ma è una confessione che quasi gli estorco, perché si intuisce quanto la sua relazione con i cavalli sia sempre spontanea e radicale; è difficile fare differenze; e risalta, soltanto, la forza della sua straordinaria, intramontabile passione.

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