Le tre generazioni della corte Santa Maria

Dal 1926 la famiglia Dornetti gestisce la cascina di Castiglione

I primissimi giorni del nuovo anno - ma le previsioni dicono che cambierà a breve - regalano atmosfere fantastiche: oggi la giornata è tersa e luminosa, spira un gelido vento da ponente, la pianura lodigiana appare circondata da montagne, di là quelle imbiancate del Bergamasco, dall’altra parte i profili scuri dei colli piacentini.

I fratelli Leonardo ed Angelo Dornetti, della cascina Santa Maria di Castiglione d’Adda, corte di confine del paese, subito dopo c’è Camairago, mi stanno facendo visitare la loro azienda agricola: una prima stalla, una seconda, la sala mungitura, i silo affiancati, che contengono gli alimenti per i bovini, la campagna che si distende davanti ai nostri occhi, con la terra adesso brulla e rivoltata, le zolle confuse, ed il grano che a breve pronuncerà i propri virgulti.

Mi piace lasciarmi stordire dal vento: mi ricorda la mia isola, sempre flagellata dall’aria. Lì, in special modo sul vulcano, dove la pietra lavica sembra rendere tutto immobile da millenni, c’è sempre un soffio sibilante, come una vocina, qualcosa che distrae ed al tempo stesso tiene compagnia. Così, oggi mi sembra di condividere una sintesi perfetta: cammino a lenti passi sulla campagna lodigiana, che ormai sento mia, e penso al vento del mio paese d’origine, che trascina con sè ogni cosa per poi, quando tutto si placa, riposizionarla negli stessi posti, come se il suo passaggio fosse stata solo un’apparenza.

la san vitino di una volta

Anche la cascina Santa Maria ha vissuto di contingenze: una volta era nel comune di Camairago, ed era conosciuta come San Vitino perché sembrava che fungesse quale dipendenza della più conosciuta cascina di San Vito, poi fu unita ad un’altra corte di Cavacurta, infine trovò la propria autonoma collocazione nel paese di Castiglione d’Adda. Di questa possessione si fa già riferimento in un documento del 1261, ma qualcosa doveva esservi precedentemente, perché risulta proprietario di beni, in Santa Maria, tra Camairago e Castiglione, un vassallo dell’imperatore Ottone III: tale conte Roglerio, che nel Lodigiano aveva numerose terre e castelli.

i baffoni del patriarca

I Dornetti sono originari di Rubbiano, poi Credera Rubbiano, in provincia di Cremona. La loro presenza è accertata già alla metà del Settecento.

La scelta di spostarsi nel Lodigiano l’aveva compiuta Abele. Questi era il classico agricoltore patriarcale; sposato con Giacomina Fusar Bassini, pia donna, aveva avuto da lei otto figli: quattro maschi e altrettante femmine.

Abele era un uomo alto, dai baffoni spioventi sul labbro superiore, la fronte spaziosa, e l’aria di chi non amava perdere tempo per nessuna ragione al mondo.

La famiglia Dornetti era andata, agli inizi degli anni Venti del secolo scorso, nella frazione Olmo di Lodi. Giusto in quel periodo, però, ad Abele Dornetti venne un ghiribizzo: quello di partire per la Francia. Oltralpe, infatti, agli inizi del secolo vi era stato un evidente abbandono non solo della manodopera contadina, ma degli stessi agricoltori: interi appezzamenti agricoli rischiavano di essere abbandonati. Così lo Stato francese finanziava gli imprenditori, anche stranieri, che si rendevano disponibili a coltivare la terra. Abele Dornetti non ci pensò due volte e partì, portandosi dietro i due figli maggiori e la moglie. Fu la consorte a decretare il dietrofront per l’Italia opponendo al marito un paio di ragioni: la prima è che non capiva assolutamente la santa messa in lingua francese e non poteva parteciparvi compiutamente; la seconda è che, non parlando in francese, non riusciva a confessarsi e non poteva conseguentemente comunicarsi; e tanto brontolò, e tanto si disperò, e tanto paventò le pene future dell’inferno, che Abele fu costretto a rientrare precipitosamente in Italia.

dalla francia alla bassa

Nel 1926 i Dornetti si erano spostati nella Bassa. La cascina Santa Maria apparve loro bellissima anche perché era ricca di piante: gabbe dolci, pioppi, ontani, plantani, rovere, olmi. I Dornetti erano ben contenti, quindi, di divenire affittuari del signor Lodigiani. Ma l’affittanza, proprio al momento delle consegne, parve nascere sotto ad un cattivo auspicio.

Il proprietario, infatti, nel consegnare la cascina ai Dornetti, aveva preferito licenziare i propri contadini, affinchè i nuovi affittuari fossero liberi di scegliere i collaboratori che preferivano. Aveva dunque saldato tutte le spettanze per il periodo in cui aveva direttamente gestito l’azienda. Il fattore però non si accontentò della liquidazione; voleva una lettera di referenze e, trattandosi di qualità che dovevano essere espresse, le pretendeva anche buone. Il signor Lodigiani non voleva sentirne e così nacque una discussione, che degenerò immediatamente: al colmo dell’ira, il signor Lodigiani si mise in macchina e partì di gran furia, investendo in pieno il proprio fattore. Il proprietario della cascina, dopo l’inopinato gesto, rinsavì immediatamente, e chiamò Abele Dornetti affinchè questi lo consegnasse alla polizia. Dornetti non poteva credere ai suoi occhi: in cuor suo pensava alla sfortuna di dover avviare un contratto d’affitto con un proprietario che di lì a poco ore sarebbe finito in prigione per omicidio. Per fortuna, il malcapitato fattore era soltanto svenuto per lo spavento, essendo stato appena lambito dalla macchina in corsa. La terribile lite fu portata a lieto fine e Abele Dornetti potè tranquillamente avviare la propria affittanza.

i figli e la guerra

Nel 1940 il signor Lodigiani vendette la cascina ad un industriale di Milano, l’ingegnere Giovanni Cavagnari: era questi di origine ebraica, volontario a sedici anni nella prima guerra mondiale. Aveva acquistato la corte Santa Maria come investimento, non solo a lungo termine, perché settimanalmente si presentava ai Dornetti per riscuotere capponi, polli, uova, latte, formaggi. D’altra parte erano tempi difficili per tutti.

Anche la famiglia Dornetti aveva patito la guerra. Dei figli, l’unico che non era stato arruolato per le vicende belliche era stato il primogenito Battista; egli aveva avuto un problema di salute che ne aveva segnato l’esistenza: era stato colpito da una rara forma di meningite, per quaranta giorni aveva avuto la febbre, periodo in cui s’era allungato di venti centimetri, e quando s’era rimesso in piedi era come tornato bambino nella testa; ciò lo aveva portato sempre a sorridere, a possedere un carattere innocente, ad essere sempre contento; era un gran fumatore di tabacco, unico vizio che si concedeva. Gli altri, Federico, Domenico, Felice, avevano tutti indossato l’uniforme militare.

Federico, maestro nella scuola elementare del paese, era stato arruolato con il grado di tenente ed aveva combattuto in Yugoslavia: era un uomo autoritario, e impostava ogni sua attività come se fosse rimasto dentro all’esercito, i suoi stessi alunni sembravano soldatini al suo comando.

I Dornetti conservano ancora una lettera che la signora Giuseppina Guerini, di Sondrio, scrisse a casa loro, chiedendo informazioni sul marito, che era commilitone di Federico: «Carissimi, mi permetto di rivolgermi direttamente, pur non conoscendovi, spinta dal vivo desiderio di poter fare un po’ di luce sul mistero che avvolge l’esistenza di mio marito...».

Domenico era riservista e arruolato alla bisogna: era stato addestrato come telegrafista e, pur richiamato a singhiozzo e per brevi periodi, aveva partecipato a più fronti.

Chi aveva sofferto maggiormente i disagi della guerra era stato, invece, l’ultimo dei figli maschi: Felice, che era stato fatto prigioniero in Russia, dove era rimasto per alcuni anni. Lì aveva visto molti orrori: raccontava di quando gli parve di osservare un muro ed invece erano cataste di morti, che non si potevano seppellire perché i terreni erano gelati. Felice raccontava di quando il primo treno dei reduci dalla Russia giunse alla stazione Centrale di Milano e vi era una folla di migliaia e migliaia di persone che speravano di trovare, in quegli sbandati, i propri famigliari.

una tenace ripresa

Per fortuna, Felice era un uomo equilibrato ed anche se gli era rimasta addosso una profonda tristezza seppe tornare alla quotidianità della vita. Insieme al fratello Domenico, condusse l’azienda agricola, subentrando al padre Abele.

Furono proprio Domenico e Felice ad acquistare la corte quando l’ingegnere Cavagnari nel 1966 decise di venderla.

Domenico Dornetti era un uomo schietto, asciutto, abituato al lavoro. Aveva sposato Margherita Sacchelli, originaria di Gombito. Il matrimonio era stato combinato da un commerciante di legnami, che oltre a concludere affari di lavoro, si dilettava a far conoscere uomini e donne in età di matrimonio, affinchè coronassero il proprio sogno d’amore. La coppia aveva avuto quattro figli: Giacomo, andato da adulto a fare l’agricoltore a Terranova dei Passerini, Franco, che aveva proseguito gli studi laureandosi in ingegneria, Angelo e Leonardo, coloro che oggi dirigono l’azienda agricola.

un presente difficile

L’attualità è figlia del proprio tempo. La stalla dei Dornetti vanta duecentocinquanta vacche, tra quelle in mungitura e bovine in allevamento. Si producono annualmente un milione e trecentomila litri di latte: quindi basta un accordo che preveda un centesimo in meno per la vendita e sono tredicimila euro secchi che si bruciano.

I continui ribassi portano a far presagire scenari apocalittici. Leonardo Dornetti è vicepresidente del Consorzio Produttori Latte del Lodigiano e le sue osservazioni, sul futuro, sono allarmanti: negli anni passati la media nazionale dei produttori di latte che chiudevano la propria stalla era pari al sei per cento; l’anno 2009 dovrebbe segnare una percentuale pari al dieci. Segno che gli agricoltori di piccole e medie aziende vanno verso la resa; il numero delle aziende agricole che serrano i battenti è in costante crescita; chi prosegue lo fa evitando di investire sull’acquisito di nuovi trattori e sulle migliorie tecniche e quindi assottigliando le prospettive di crescita, di ritorno economico e di benessere.

Poco tempo fa i produttori di latte, come la generalità degli altri agricoltori, si lamentavano dei lacci imposti dalla burocrazia, oggi la crisi è su ciò che di più intrinseco c’è nella loro attività: il profitto sulla vendita del latte. Ingiustificabile la forbice tra il risicato guadagno del produttore agricoltore e l’effettivo ampio prezzo di vendita introitato dalla grande distribuzione: in quella cesura, così notevole, c’è tutta la delusione di chi gestisce una stalla.

Il legame con le antiche tradizioni agricole si basa oggi esclusivamente sulla passione, la quale riesce a delineare, da qualche parte, nel profondo del cuore, l’orgoglio di una prospettiva.

E quella dei Dornetti, di passione, giunge da lontano, da una storia secolare. Ha radici robuste. Così è più facile credere al domani.

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