La terra promessa della cascina Bocconi

Dal Piemonte a Caviaga: l’avventura della famiglia Spinetta

God save the Queen, e possibilmente anche la cascina Bocconi - nel passato indicata semplicemente come Podere - sita a Caviaga, frazione della vicina Cavenago d’Adda. Perché c’è la natura di una volta, e si ha la sensazione che qui vi sia stato un incantesimo e che ogni cosa sia rimasta immobile, al suo posto, da centinaia e centinaia di anni. La cascina è antichissima, probabilmente risale al XVI secolo, e già dal toponimo s’intuisce che apparteneva alla stirpe dei Bocconi, da cui il fondatore dell’omonima università milanese. L’agricoltore Lorenzo Spinetta sembra leggermi nel pensiero. È un uomo che di semplicità ed umiltà ha fatto le sue prime regole di vita; mi dice una cosa bella e profonda: «A volte - racconta - mi sembra di non appartenere alla nostra società contemporanea. Io sono figlio della terra e della natura: appartengo totalmente ad esse. Noi agricoltori attraversiamo una fase difficilissima, ma cerco di non arrendermi, anche se mi pare di lottare contro un fiume in piena che mi trascina a valle. Mi aiuta credere in certi valori, e lo farò sino alla fine. Anche quando il mondo gira all’incontrario: avere perso la Polenghi, qui nel Lodigiano, è stato a mio avviso un affronto tremendo, una cosa che ancora mi turba e mi frastorna».Gli Spinetta sono tutte persone alla buona: pane, lavoro, e valori.

Un lungo viaggio Il nucleo originario è di Castelnuovo Scrivia, provincia di Alessandria. Del capostipite Antonio, agricoltore della metà dell’Ottocento, si persero inspiegabilmente le tracce. La terra lì in Piemonte non era semplice da lavorare e a lui erano venute strane idee: da qualche amico aveva sentito che in America si faceva fortuna, che prati a pascolo rendevano ricchissimi pur con pochi investimenti, che bastava solo la volontà di lavorare per creare dal nulla ricchissime fattorie. Quelle chiacchiere per lui erano divenute vere ossessioni. Ne aveva parlato alla moglie, Rosa Ferrari; che lo aveva lasciato dire perché non pensava che il suo Antonio volesse veramente partire: le sue sembravano essere solo fantasie. E poi erano in attesa del loro primo pargolo. Ed invece, quando correva l’anno 1894, egli si fece trovare con in tasca il biglietto di una nave per l’America. Promise alla moglie in lacrime che non appena si fosse sistemato ed avesse messo da parte qualche dollaro, si sarebbe fatto raggiungere da lei e dal piccolo erede. Che la fattoria sarebbe magari giunta in un secondo momento. Insomma, la invitò a tenersi pronta. Un mattino salutò la moglie e da allora non si fece più vivo. Impossibile sapere se Antonio Spinetta avesse raggiunto l’America e si fosse fatto lì una nuova vita. Se avesse avuto fortuna o fosse morto povero e solo, magari prima ancora di arrivare nella terra promessa.

Un fior di figlio La signora Rosa Ferrari si trovò a crescere da sola un figlio: la poca terra che avevano non bastava a darle tranquillità economica e così andava a svolgere lavori agricoli anche sotto padrone. Ma allevò un fior di figlio, onesto e lavoratore: Ernesto Spinetta nacque nel 1895. Più volte pensò di se stesso di essere nato con la camicia, cioè ben fortunato, soprattutto quando fu arruolato per la Grande guerra. Della famiglia Spinetta partirono in due: lui e un cugino, che si chiamava Camillo. Quest’ultimo morì quasi subito, mentre Ernesto, pur guardando la morte in faccia in più occasioni, riuscì sempre a farla franca. Un episodio, in particolare, gli rimase impresso per tutta la vita: camminava su una mulattiera, trascinando un riottoso mulo. Una granata scoppiò nei pressi e una scheggia tranciò di netto la briglia con la quale lui tirava il quadrupede.Quando ritornò dalla guerra, Ernesto Spinetta pensò di dare una svolta al suo impegno agricolo: in un primo tempo, infatti, egli coltivava grano e mais; poi aveva provato con piante di fagioli e di ceci. Lì c’erano campagne difficili: nei pressi del torrente Scrivia, infatti, la terra era sabbiosa e più malleabile, ma via via che si saliva diveniva dura ed aspra. Ernesto però era persona energica, che non si fermava davanti ad alcuna difficoltà: prima con l’asino, poi col cavallo, arava dall’alba sino a notte fonda. E poichè i suoi sforzi cominciavano ad essere ripagati, disse alla moglie Maria Rosa Bensi che occorreva fare qualche sacrificio in più, e prese in affitto altra terra: vi impiantò un orto attraverso il quale produceva molti beni. Andava al mercato di Castelnuovo Scrivia: non era l’alba che insieme ai figli, Pietro, nato nel 1924, e Mario, di un anno più giovane, si trovava già sul posto. Un’ora dopo suonava una campanella, si alzavano le saracinesche, ed entravano tutti i bottegai ed i commercianti della zona.

Un bel cambiamento Fu in quel periodo che Pietro Spinetta, il primogenito di Ernesto, cominciò a pensare che se avessero lavorato in una zona meno aspra, forse ogni cosa sarebbe stata più semplice. Ne parlò alla moglie, la signora Caterina Novelli. Oggi, il signor Pietro ha 87 anni ed uno spirito che lo rende battagliero ed arguto: a ripensare a quei giorni, gli viene ancora da portare le mani ai capelli! La signora Caterina, 84enne, ha un’espressione dolce sul viso, e una fermezza nei modi che la dice lunga su come abbia saputo bene affrontare le insidie del mestiere agricolo. D’altra parte a Castelnuovo Scrivia le donne o lavoravano nell’unica fabbrica del paese, che produceva gomme per la suola delle scarpe, o faticavano sui campi; e lei aveva scelto questa seconda strada. Un mediatore aveva loro raccontato del Lodigiano e delle sue meraviglie: e soprattutto della cascina Bocconi, a Caviaga. Nel 1951 gli Spinetta vi giunsero ben felici: pensavano di trovare una bellissima corte e si accorsero, invece, a cose fatte, di avere acquistato un rudere, che cadeva a pezzi. Sino a quella data la possessione era appartenuta alla signora Ester Griffini in Riccardi, ma vi era affittuario un certo Maiocchi, che a sua volta aveva delegato ogni impegno ad un malghese, Rocco Stracchi. I due avevano gestito bene l’azienda, ma poi se ne erano disinteressati, appassionati più del vino che del lavoro: erano divenuti amici e sodali di colossali bevute.La casa era un disastro: mancavano la corrente, i vetri alle finestre, le porte; alla signora Caterina la sera veniva il magone, poi pensava che era accanto al suo uomo, del quale sin dall’inizio l’aveva colpito il piglio sicuro che non sconfinava mai in spavalderia, e si rasserenava. Il primo inverno fu pesantissimo: gli Spinetta avevano attrezzato le stanze mettendo in pratica un elementare principio: è negli ambienti più piccoli che può ricavarsi il maggiore calore. E poiché in cascina vi erano soltanto stanze grandi, all’interno di queste avevano costruito alcuni spazi, utilizzando assi di legno, ricoperte da fogli appiccicati con la colla di farina per chiudere gli spifferi: qui, collocavano una stufa, e dentro questi piccoli camerini di legno tutta la famiglia si riscaldava.

Fatiche e amicizie Più ancora pesava la nostalgia per Castelnuovo Scrivia. Gli Spinetta si esprimevano solo nel dialetto del loro paese, un piemontese infarcito da cantilene pavesi, e qui si parlava soltanto il lodigiano: non ci si capiva. Tanto che il più giovane dei fratelli Spinetta, Mario, decise di tornarsene in Piemonte, e lasciò perdere l’agricoltura, rilevando nel suo paese d’origine un esercizio di generi alimentari.Pietro Spinetta, invece, pur avvilito, tenne duro. Anche a volerlo nessuno avrebbe comperato la cascina in quelle condizioni. In quel periodo anche l’impegno agricolo diceva male. L’idea di dedicarsi all’ortaglia si era rilevata fallimentare: c’erano mediatori per il latte, per il grano e per il mais, ma gli ortaggi minuti non li trattava nessuno, occorreva andare a Milano al mercato ortofrutticolo. In più, le uniche due bovine che gli Spinetta possedevano, avevano fatto una brutta fine. Ernesto aveva allora comperato sette vitelli, e gli erano morti tutti, uno dietro l’altro. I campi? Un disastro, anche quelli! Questa era la zona storica dell’Agip, sottoterra c’era metano dappertutto, i raccolti appassivano come niente, bruciati. Così era venuto meno anche il reddito del malghese, che non aveva come nutrire le proprie bovine.Per fortuna le relazioni umane miglioravano: Francesco Groppelli, della cascina Dosso, fu il primo vero amico di Pietro Spinetta; e così Isidoro Buriani della cascina Casoni e Natale Invernizzi, anch’egli dell’ambiente agricolo. Proprio quest’ultimo, avendo un piccolo caseificio, gli veniva a ritirare il latte: si trattava di un solo bidoncino, e il signor Natale lo poneva sulla canna della bicicletta. Poi il latte fu conferito anche ad altri “latè” della zona, quindi alla Polenghi, ed ora da anni è destinato alla Parmalat. Rincuorato dalle nuove amicizie, il signor Pietro rinnovò il suo impegno: a metà degli anni Sessanta acquistò diciassette bovine lattifere ed altrettante manzette, e assunse come dipendente il mungitore Pietro Pedrazzini, che essendo un uomo esperto garantì il funzionamento della stalla; fu avviata anche una porcilaia. La cascina rifiorì.

Un agricoltore nato Nel frattempo, si affiancò al padre il figlio Lorenzo; egli ha cominciato ad essere agricoltore già dai suoi sette anni, quando per gioco salì sul trattore e per schiacciare la frizione, tanto era dura, doveva stare in piedi. Da allora - per metafora - non ha inteso più scenderne. Dal padre, Lorenzo ha imparato tante cose, ed alcune fondamentali lezioni morali: cercare di capire sempre le ragioni degli altri, non essere perciò mai aggressivi, se non per difendersi; ha appreso da lui il senso dell’onestà e dell’umiltà.Lorenzo Spinetta si divide tra la stalla, dove oggi vi sono 43 bovine lattifere e altrettante manzette, e i campi. Egli ha sposato Camilla Merlini, originaria di San Martino in Strada, ragioniera, che ha scelto di lasciare l’impiego per dedicarsi a tempo pieno, come coadiuvante, all’azienda. E poi c’è la loro figlia, la ventiduenne Roberta, che sembra avere eredito uguale passione per la terra, e che potrebbe dare seguito, un giorno, all’impegno agricolo, dimostrando che anche nel Lodigiano, a dispetto di quel che aveva creduto il suo bisnonno Antonio, si possono realizzare fattorie che farebbero invidia anche agli stessi americani.

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