Rubriche/Cascine
Domenica 24 Marzo 2013
La rustica cascina Montebuono di Vizzolo, un avamposto assediato dalla modernità
Accade certe volte, di ritorno da una cascina, che io mi senta felice.Così, oggi, mentre mi trovo alla corte Montebuono di Vizzolo Predabissi, avverto sensazioni di gioia. Ho trovato un luogo che, nella sua straordinaria confusione, mi ricorda l’origine del mondo. Giordano Fondrini - l’affittuario della corte Montebuono - mi conquista immediatamente. Mi ha accompagnato da lui Dina Vitali della Motta di Massalengo. Loro si conosco da quando erano bambini: inevitabile che Dina - loquace com’è, e capace di cogliere il verso giusto di ogni persona - stringesse e mantenesse salda con lui, nel tempo, una bella e schietta amicizia.
TIMIDEZZAGiordano Fondrini fa parte della cerchia dei timidi, di quelli che vorrebbero restare nel guscio della propria riservatezza. Sono qui per conoscerlo mentre lui, senza mai avermi visto prima d’ora, sa già tanto di me. Mi dice una frase che mi spiazza e mi commuove: avere lei in casa mia, è come ritrovare un amico di vecchia data! In un groviglio di carte, Giordano Fondrini mi mostra numerose pagine de il Cittadino: sono gli articoli sulle cascine lodigiane, che lui conserva con cura. Giordano non vorrebbe dire tanto sulle vicende della cascina, dove vive da oltre mezzo secolo. Magari giusto due chiacchiere, solo per non essere scortesi. Quelle due parole diventano quattro, quindi raddoppiano, alla fine realizzano una storia straordinaria.
UNA TRAGEDIA ASSURDAAlla cascina Montebuono è legata una vicenda tragica e assurda, tramandatasi nel tempo, e che lo stesso Giordano, pur abitando già nella porzione di corte posta dirimpetto, ha solo sentito raccontare. Era il novembre 1958. Lì vi abitava un contadino che aveva la “scumagna” di “Turin Genova”: quale fosse il suo vero nome nessuno lo ricorda più; l’altro appellativo lo identificava più della sua vera identità: gli era stato appioppato perché correva sempre in bicicletta. La gente del paese, vedendolo sfrecciare, scuoteva la testa, sembrava si allenasse per una gara di corsa Torino-Genova tanto andava veloce. Invece, il genero che viveva con lui aveva la passione per la moto: era quasi un’ossessione, la lustrava per ore quasi giornalmente. Una sera accadde la terribile disgrazia: il genero, dopo avere riposto nell’ingresso della propria casetta il motorino, aiutato dal figlio dodicenne, aveva cominciato la pulitura del mezzo. In mancanza di illuminazione, il bambino teneva tra le mani un mozzicone di candela; per una fatalità, un pezzo di cera incandescente cadde in una tinozza contenente miscela: vi fu una vampata di fuoco; il contadino, forse sottovalutando il pericolo, tentò di mettere in salvo la moto, che invece rimase incastrata nell’uscio, divenendo un ulteriore ostacolo alla fuga: quando il contadino si girò, la stanza era devastata già dalle fiamme. Sua moglie, il suocero e 3 bambini dormivano nella stanza attigua e morirono tutti. Le uniche a salvarsi furono due sue figliolette, gemelle, che erano ricoverate in ospedale, ammalate di tifo.A quel tempo affittuari della cascina erano i De Capitani, che qui rimasero per 24 anni: dopo si spostarono nella zona di Settala, poi le nuove generazioni preferirono dedicarsi ad altre attività, abbandonando l’agricoltura.
DALLA VAL BREMBANAAlla corte Montebuono - che ebbe diversi passaggi di proprietà - giunsero allora i Fondrini. Questa famiglia aveva le proprie origini a Valleve, Val Brembana. Essendo di origine malghese, i Fondrini scendevano d’inverno in pianura. Luigi Fondrini, ad esempio, classe 1909, era nato a Valera Fratta. Fu lui con i fratelli a fissare in pianura la dimora della famiglia, mettendo radici a Cremona. Erano in nove, i fratelli: cinque maschi, e quattro femmine: Andrea, Battista, Stefano, Carlo, appunto Luigi; e poi Antonia, Agostina, Adalgisa e Clementina.I cinque maschi erano agricoltori; tra loro andavano d’accordo, con il solo Battista che teneva ad assumere il ruolo del “regiù”. A qualcuno, purtroppo, toccò fare i conti col destino. Come Stefano, arruolato e spedito al fronte nel conflitto della prima guerra mondiale: morì barbaramente, mentre si allacciava gli anfibi, centrato da un cecchino. Aveva vent’anni. Dentro una cornice, c’è una foto che ritrae un altro di questi fratelli: Andrea. Si tratta di un bella immagine: l’età appare indefinibile, lo sguardo sembra giovanile, ma la barba è fluentissima e larga, apparentemente sul rossiccio, con un paio di eleganti baffoni a sovrastarla; la fronte larga e spaziosa, gli occhi presumibilmente cerulei, di dolce e ferma espressione. Andrea fu vittima di un raggiro che lo mortificò molto: un giorno, vestiti di tutto punto con la divisa, gli si presentarono in cascina alcuni militanti della milizia fascista, a cui vi era l’obbligo di vendere il frumento a prezzo agevolato. Andrea Fondrini, senza neppure discutere, prese l’assegno e l’indomani andò in banca a depositarlo. Lì si accorse che in mano non aveva un vero titolo, bensì una carta falsificata. Ma la sorpresa maggiore doveva ancora giungere: un paio di giorni dopo gli si presentarono i veri miliziani e non trovando il frumento trassero in arresto Andrea, accusandolo di tradimento. Al processo gli paventarono il rischio della fucilazione, e solo pagando un avvocato i famigliari riuscirono a trarlo fuori dalla prigione.
NEL DOPOGUERRANel 1946 i fratelli Fondrini decisero di dividersi. Successivamente nel 1952 Luigi si spostò a Buronzo, provincia di Vercelli, e dopo diciassette anni di fidanzamento, e la nascita del figlio Giordano, avvenuta nel luglio del 1941, decise di prendere in sposa Dorina Dusi. La signora non sperava quasi più nel matrimonio, contrastato da alcuni famigliari di lui. Dorina aveva frequentato le suore durante il periodo scolastico ed era bravissima nella recitazione: tanto che quando uno spettacolo si concludeva con una farsa, lei aveva il ruolo della protagonista, ed era applauditissima. Sua madre, però, se ne rammaricava perché considerava il teatro qualcosa di disdicevole.Sino al matrimonio dei genitori, il piccolo Giordano aveva visto il padre solo una volta, quando aveva sei anni: “Ciao bislacco!”, gli aveva gridato il genitore da lontano. Poi, più nulla. Giordano era cresciuto con i nonni materni: era stato abituato a chiamare mamma la sua nonna e per nome la vera madre. Quell’improvviso matrimonio lo disorientò: non sapeva come chiamare il padre. In dialetto cremonese papà si dice “pupà”, ma lui non riusciva a chiamarlo così: “Ehi te!”, lo chiamava. Dopo un mesetto, cominciarono a capirsi e a stimarsi.
UN UOMO SERIO“Pupà” Luigi si rivelò un uomo serio, che non amava dare confidenza al prossimo, non dimenticava i torti, e amava lavorare sodo; mamma Dorina era una persona solare, mantenne sempre la propria umiltà, che le consentì di essere una persona dalla sincera umanità. Dopo il periodo di Vercelli, dove la terra si rivelava malvagia, dura da coltivare, i Fondrini si spostarono ai Casoni di Borghetto Lodigiano, dove rimasero sei anni. Nel 1961 si spostarono a Vizzolo Predabissi, alla cascina Montebuono. Il posto sembrava sperduto e il rimpianto di Casoni, dove c’erano parrocchia, osteria e cinema, e sembrava d’essere al centro del mondo, si fece consistente. Talvolta affiora ancora. Ma Giordano è uomo che si definisce solitario, pure dalla scorza ruvida; inghiotte il magone e si dedica al lavoro. Sto imparando a conoscerlo: rivela un’evidente bontà d’animo, un profondo sentimento di fede religiosa, e una passione irrefrenabile per il Milan («Il giocatore più forte della storia rossonera: e me lo chiede? Gianni Rivera!»).La passione per il Milan gliela contagiò, durante gli anni di Burongo, il figlio del capo cavallante. Il resto, è vero, è scorza dura.
IL PRESENTEOggi l’azienda agricola di Giordano Fondrini è rivolta alla monocultura. La parte a prato stabile è stata riservata alla nuova tangenziale esterna di Milano. Così la cascina Montebuono appare un ultimo avamposto di un’identità rurale assediata dalla modernità. Resta solo Giordano Fondrini. Se vuole, gli faccio compagnia.
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